Voglio celebrare oggi, nel giorno del centesimo compleanno di Oscar Niemeyer, tutta l’architettura brasiliana del XX secolo.
Oscar Niemeyer, è il genio dell’architettura, l’uomo delle curve e del cemento armato, che a cent’anni continua a lavorare e pensare che "l’architettura e il comunismo siano i due strumenti per costruire un mondo migliore". Oscar Niemeyer, il genio delle curve, le curve delle montagne, delle onde del mare, della donna, le curve che "se la retta è il tragitto pù breve tra due punti, allora la curva è la linea che cerca l’infinito". Oscar Niemeyer, il discepolo di Le Corbusier, dal quale apprende l’uso del cemento armato, ma che è il modernista che uccide il modernismo e lo rigenera in forme lontane dall’Europa. "L’architettura non deve essere funzionale, ma bella", afferma ed a meno di 40 anni è già un eretico. E’ Oscar Niemeyer, che prende per mano la Río de Janeiro barocca e la trasforma nel gioiello della modernità incastonata nel paesaggio naturale carioca più sconvolgente del mondo, restituendola così alla contemporaneità. Andate a Niteroi (nella foto più sotto) e vi sembrerà di salpare verso lo spazio ma restando pienamente tra la selva e l’Oceano.
Negli ultimi anni, almeno nell’ultimo quarto di secolo, in quante espressione irriconducibile della nostra contemporaneità è stata suturata dal postmodernismo. In primo luogo il mondo occidentale, e statunitense in particolare, non ha mai smesso di considerare il Brasile e
l’America latina tutta come subcultura e cultura subalterna (i due termini sono solo apparentemente sinonimi) alla quale guardare con paternalismo, ovvero proteggere, senza mai riconoscere caratteristiche di avanguardia, visionarietà, progresso.
E’ che il progresso occidentale, anche nella migliore espressione di sé, ha condotto un percorso di accettazione e difesa di quelle che considera (sic!) minoranze, le donne, i gay, i negri, il pluralismo religioso, il sud del mondo, il pluralismo in genere, il multiculturalismo. Accettazione e difesa, non riconoscimento e dialogo. Sono "microcosmi panda", che visti da Occidente si reggono solo sotto il grande ombrello monopolista della cultura occidentale che non può riconoscere a culture altre, ibridate o meno al proprio interno, dei valori universali che sono sinonimi dei valori occidentali e sintetizzati da questi. Il valore occidentale per eccellenza, la tolleranza è la fotografia del considerare l’altro subalterno, non uguale, men che mai avanti.
Dal luogo di questo localismo occidentale diventa inconcepibile riconoscere la centralità, l’universalità anche e forse soprattutto nell’architettura, del Brasile. Eppure è proprio Niemeyer e il suo intorno culturale, già nei primissimi anni ’40 del XX secolo, a denunciare la fine del moderno, soffocato tanto dai totalitarismi come dalla commercializzazione capitalista della conversione dell’arte in industria.
Di fronte alla radicalità di tale denuncia, il percorso postmoderno occidentalocentrico non può fare altro che ignorare. Non può fare altro che ignorare un’architettura nata e concepita come responsabilità politica e soprattutto ecologica del paesaggio urbano e degli spazi. Non può non ignorare l’espressione massima di questa cultura, l’invenzione di Brasilia, che era il progetto politico di Juscelino Kubitschek e urbanistico di Niemeyer e Lucio Costa. "Ordem e Progresso", come recita il motto impresso sulla bandiera brasiliana, una sorta di Pienza ciclopica nelle dimensioni e nell’incontro pacificato tra due forze, quella della civiltà industriale e quella del sertão selvaggio che si coniugano con un territorio senza frontiere. "Brasilia sorse come una magia -racconta ancora oggi Niemeyer- noi dicevamo, lì il Congresso, là un teatro, e quelli crescevano". Brasilia è il centro del mondo.