E’ più difficile e allo stesso tempo più urgente, dopo la morte di Piergiorgio Welby, aprire un dibattito sull’eutanasia in Italia. Non si può essere costretti a scegliere tra l’avventurismo omicida dei talebani radicali di Marco Pannella, e la sadica morale di Joseph Ratzinger e del Vaticano, per i quali perfino l’anima di Augusto Pinochet merita più pietà di quella di Welby.
Che piaccia o no, il simbolo del Natale 2006 resterà quella chiesa di San Giovanni Bosco che il Vicariato di Roma ha preteso restasse chiusa rifiutando il corpo morto di Piergiorgio Welby. Da decenni oramai i funerali dei suicidi sono accettati dalla chiesa cattolica. Il rifiuto di celebrare quello di Welby è pertanto un segnale triste di una chiesa senza carità. Difficilmente, anche dal luogo della laicità più critica, si è abituati a considerare la chiesa cattolica come così indifferente alla sofferenza umana.
Si può scegliere, per convenienza politica o clericalismo spiccio, di fare finta di non vedere la portata cosmica di quella porta chiusa. Ma se pure si sceglie pubblicamente di glissare, dentro la coscienza di ognuno, non si può non riflettere sul significato profondo del ?Cristo in croce? Welby che bussa e trova la porta della chiesa chiusa proprio alla vigilia di Natale.
D’altra parte è osceno che Piergiorgio Welby sia stato giustiziato all’alba, di nascosto, per meglio sfruttarlo a fini di propaganda politica. Eppure quella dittatura della moralità laica alla quale pretende di assurgere il Partito Radicale ha fatto morire il povero Welby come i condannati a morte nelle carceri giapponesi: due righe di comunicato stampa ad esecuzione avvenuta.
Per un partito che strumentalmente e falsamente si autoattribuisce il merito di qualunque avanzamento nella lotta contro la pena di morte nel mondo, l’atto dimostrativo giocato sulla morte di Welby è un crimine storico, l’ennesimo golpe di avanguardismo di un partito che resta irrilevante numericamente nel paese ?come le elezioni di aprile hanno di nuovo dimostrato- ma che pretende di imporre al paese stesso la propria marginalità culturale. Solo la ragion di stato (di partito) obbliga il militante, o l’anticlericale a prescindere, ad un atto di fede -ben poco laico- per non dubitare che quella sia stata la volontà di Welby fino all’ultimo istante. Per credere che quello commesso dall’anestesista, con la complicità di Marco Pannella e della cupola radicale, non sia stato un omicidio volontario premeditato. Turba la muscolare pochezza culturale e l’aridità politica della bioetica radicale. Welby, o chi per lui, se vuole ha diritto di morire; tutto qui. Quindi un anestesista, o un sicario di Pannella, che è lo stesso, entra nella stanza, lo uccide e giustizia è fatta. Ciò senza alcuna altra riflessione, prudenza, dubbio, umanità.
Dall’estremo opposto i radicali si ricongiungono dunque con la chiesa ratzingeriana. Appena pochi giorni fa, quella stessa chiesa non aveva negato alcun turibolo, incenso, benedizione, al genocida Augusto Pinochet. Al contrario ha scelto di mostrare tutta la sua durezza inquisitoria contro Piergiorgio Welby e la sua irrimandabile necessità di pace. Per la chiesa di Joseph Ratzinger, e su questo la cruda materialità degli eventi non lascia ombra di dubbio, l’anima di Pinochet merita pietà, quella di Welby no.
IL DRAMMA DI CHI NON RIESCE A MORIRE Avere per questo Natale uno Welby sul quale riflettere, a meno di non chiamarsi Pannella o Ratzinger, che allora si vivrebbe di certezze, è molto più fertile che ritrovarsi di fronte al consueto vuoto pneumatico di Babbo Natale, apparentemente innocuo ma che, se una spina sa staccare, è proprio quella del cervello di centinaia di milioni di persone. A meno di non essere volgari megafoni strumentali, un Volonté o un Gasparri o un Capezzone, ogni essere umano a conoscenza del dramma di Welby -qualunque sia la sua cultura, credo o condizione sociale- deve avere espresso un pensiero personale, articolato, sensibile, fatto di esperienza, contatto ed empatia con la sofferenza. E, nella maggioranza dei casi, questo luogo della sensibilità e dell’esperienza, che tutta la società può condividere, non coincide con quello delle due minoranze talebane che si contendono le spoglie di Welby, quella del bigottismo ultraliberale dei radicali e quella dei Torquemada ratzingeriani che, ottocento anni dopo, continuano a pensare che torturando il corpo si salvi l’anima.
Dunque il dibattito al quale tanto i radicali come il Vaticano stanno cercando di torcere il braccio, per trasformarlo in un lucrosissimo ma sterile e dannoso muro contro muro, è un dibattito non solo necessario ma possibile. E’ un dibattito al quale, mai come in questo caso, l’intera società è in grado di contribuire. Altro che il referendum contro il ?golden share?, voluto dai radicali, o gli anatemi vaticani contro gli innocui Pacs! Quello sulla difficoltà di morire potrebbe essere un dibattito fertile, a patto di impedire che venga trasformato in crociata. Lo sarà in parte, sicuramente, ma il dramma di chi non riesce a morire, di chi è ridotto in uno stato vegetativo, più o meno cosciente, più o meno flagellato dal dolore, con più o meno lunga aspettativa di vita, tocca ed in un prossimo futuro toccherà la nostra società fino al midollo.
FINO AL NATURALE TRAMONTO La scienza, la tecnologia, la medicina, nel XX secolo hanno eliminato cause di morte, e continueranno ad eliminarne. Ma hanno fallito, almeno finora, nel restituire ai salvati dalla morte una vita autonoma e dignitosa. Non si muore, ma neanche si guarisce. Solo trent’anni fa, per attestare la morte di un essere umano si usava uno specchietto, una candela, il vapore del respiro. E sovente si sbagliava. Oggi non si sbaglia più, almeno nelle società affluenti.
Nell’omelia della messa di Natale, Josef Ratzinger, parla di sacralità della vita umana ?fino al naturale tramonto?. Ma non sta parlando del naturale tramonto come lo ha inteso la stessa chiesa cattolica per duemila anni e fino a pochi decenni fa. Sta parlando di un naturale tramonto mediato da macchine in grado di mantenere indefinitamente in vita un corpo -che altrimenti morrebbe in pochi minuti- per uno, dieci, vent’anni, andando ben oltre la naturalità. E’ questo un ?naturale tramonto?? E’ ?staccare la spina?, ciò che impedisce alla vita umana di raggiungere il suo ?naturale tramonto?? O non è forse ?attaccare la spina?, il vero evento innaturale?
In Italia ci sono circa 2.000 persone in stato vegetativo permanente. E’ solo una delle categorie di malati terminali che la medicina in scienza e coscienza definisce senza speranza. Hanno la corteccia cerebrale lesa, non possono provare emozioni, né pensare, ma con un sondino possono essere alimentati per anni, teoricamente per sempre. Eluana Englaro, una ragazza di Lecco di 35 anni, è in questo stato da 15 anni esatti il prossimo 18 gennaio 2007. Dal 1999 suo padre chiede senza successo di interrompere l’accanimento ?terapeutico? su quel corpo già morto.
La chiesa rifiuta di fare i conti con questo aspetto tragico della modernità e si ostina a considerarlo naturale. Ma se la chiesa non vuole fare i conti con la realtà, dovrà farlo la società della quale anche i credenti fanno parte. La medicina continuerà a evitare la morte, ma non ridarà la vita. In un domani molto prossimo, centinaia di migliaia di familiari vedranno le loro vite ruotare intorno a corpi inerti, o atrocemente e irresolvibilmente dolenti. I benestanti vedranno sfumare fortune nella cura dei morti viventi. Gli altri chiederanno aiuto allo Stato che dovrà sottrarre ogni giorno più risorse ai vivi per destinarle ai morti. Questi, a voler star dietro alla follia ratzingeriana, finiranno per essere gli unici a beneficiare del diritto alla salute; in fondo basta non staccare loro la spina. Gli altri, quelli che avranno soltanto un mal di pancia, potranno aspettare, finché arriverà il giorno nel quale bisognerà scegliere se mantenere in vita lo zio, magari inerte da vent’anni, o curare il nipote.
L’Apocalisse ratzingeriana dei morti viventi è un pericolo concreto e diverrà realtà se continuerà ad avere come contraltare l’avventurismo radicale, la faciloneria per la quale tutto è libertà di cura e morire sarebbe un diritto come andare allo stadio o mangiare una pizza. Su cento malati terminali forse c’è un Remy, il protagonista della pellicola canadese ?Le invasioni barbariche? (2003), che va incontro all’eutanasia con allegria circondato dagli amici di una vita. E forse c’è un Piergiorgio Welby che, almeno ufficialmente, fa una scelta consapevole. Ma ci sono altri 98 poveri cristi malati terminali. Se non sono in stato vegetativo, sono persone provate, spaventate, dolenti, in bilico quotidianamente tra una umana quanto irrazionale speranza di guarigione ed una tentazione definitiva. Cosa premierà nella scelta di chi sarà chiamato a scegliere? Considerazioni oggettive? Parametri clinici? La volontà cangiante e straziata di un essere che non sempre è più capace di intendere e di volere? Quella dei familiari che può soggiacere a molte e non tutte accettabili logiche? Quelle dei sanitari, magari stretti dalla carenza di risorse? Un giudice? Un assistente sociale? Un esperto di etica? Ognuno di questi soggetti con quale diritto? Con quali garanzie per il malato terminale? E quale società ragionerà sul se, come, quando, perché? Quale classe politica scriverà materialmente una legge dolorosamente necessaria? Perché se un anestesista di soppiatto può entrare ed uccidere Piergiorgio Welby ed essere venduto dai suoi come un eroe, altra cosa, ben altra cosa, è scrivere la legge che libererà dal male o assassinerà 98 poveri cristi, che hanno molte meno certezze di Pannella o Ratzinger, ma sono condannati a morire torturati nel giro di giorni o mesi.
Quella legge bisognerà scriverla, meglio prima che poi, e dovrà essere scritta lasciando lontano tanto i colpi di mano omicidi dei radicali, come la disumanità delle porte chiuse del Vaticano, che salva l’anima di Pinochet ma non ha pietà di Welby. Con la morte di Welby entrambi gli estremismi sono usciti sconfitti e sideralmente distanti dalla società reale e si dimostrano ancora più incapaci di risolvere casi ancora più spinosi come quello di Eluana. La società appare sicuramente più avanti: si trovano laici contrari, cattolici favorevoli, segno che non può essere quella la linea di frattura ma soprattutto tutta la società appare partecipe ed umanamente titubante di fronte a un problema ineludibile e che tocca tutti, poveri e ricchi, giovani e anziani, sud e nord. Bisognerà scriverla quella legge superando per una volta la contrapposizione tra etica laica e cattolica sulla quale campa strumentalmente una classe politica irresponsabile. Quella legge dovrà essere scritta con amore, quel sentimento che né i presunti tutori della morale laica, né i sacerdoti della morale cattolica, hanno dimostrato di provare per Welby. Quella legge va scritta con dialogo, con pazienza, con apertura, ma soprattutto va scritta con amore alla vita, perché la morte è parte della vita.