Sandro Viola, classe 1931, è uno dei patriarchi del giornalismo italiano. Ieri ha scritto un editoriale su Repubblica intitolato “Il Re e i talk show”. Nell’articolo si lamenta della pessima qualità dei vari Ballarò, Porta a Porta eccetera e lo fa con un esercizio retorico scarsamente degno della sua lunga carriera.
Il succo è che per Sandro Viola sarebbe bello avere un Juan Carlos di Borbone con l’autorevolezza di zittire politici impresentabili come fece al vertice iberoamericano di Santiago del Cile nel novembre 2007 con Hugo Chávez.
Per Viola quel “por qué no te callas”, “perché non stai zitto”, pronunciato dal Borbone al negraccio dell’Orinoco, come il cameo di Marshall McLuhan in “Annie Hall” di Woody Allen, assurge ad una sorta di rivincita delle persone dabbene verso i politici quaquaraquà.
Il dabbene è Don Juan Carlos di Borbone e il quaquaraquà ovviamente il presidente del Venezuela.
Se non avesse sbagliato esempio e contesto condivideremmo il giudizio di Sandro Viola sui talk show. Notiamo di passaggio che tutto l’articolo è punteggiato di improperi contro Chávez ma, nonostante il pezzo sia formalmente dedicato ai talk show italiani, l’autore non faccia neanche un nome di politico italiano meritevole di essere zittito. Ma il fatto interessante per noi è che il giornalista di Repubblica, probabilmente in assoluta buona fede, cada egli stesso vittima dei media che critica e riproponga una metarealtà di quello che crede sia successo a Santiago del Cile ma non quello che successe davvero.
E da quello che successe davvero fu Juan Carlos di Borbone ad uscire pessimamente. Il monarca spagnolo era così poco regalmente furioso in quei giorni cileni non certo per la logorrea di Chávez, ma perché per la prima volta nella storia non uno ma la maggioranza dei presidenti di paesi ex-colonie spagnole presentava il conto in maniera durissima. Quei due giorni furono infatti un bombardamento costante sulle responsabilità spagnole nella notte neoliberale in America latina. Denunce alle quali le regali orecchie di Don Juan Carlos non erano abituate.
Invece le regali orecchie sono state abituate in questi anni ad essere sperticatamente lodate e ringraziate, anche perché i manager delle multinazionali spagnole (ma il Borbone non è tenuto a saperlo) sono considerati i migliori pagatori di tangenti al mondo. Fatto sta che quel giorno a Santiago, con fatti concreti e documenti scabrosi (per esempio sulla Unión Fenosa), Borbone e Zapatero, faticosissimamente difesi dalla sola Michelle Bachelet come anfitriona, si erano trovati messi in un angolo non solo da Chávez ma anche da Nestor Kirchner, Evo Morales, Rafael Correa, Daniel Ortega, Carlos Lage. Borbone e Zapatero di fronte a quelle accuse così puntuali si ritrovarono senz’altri argomenti che sbuffare, molestare continuamente, interrompere tutti gli oratori, fino ad alzarsi ed andarsene platealmente e ben poco regalmente né educatamente mentre il capo dello Stato del Nicaragua si stava rivolgendo in maniera critica proprio al suo omologo spagnolo.
Rafael Correa, presidente ecuadoriano, in quella sede definì (carte alla mano) le multinazionali spagnole come “una banda di avvoltoi”. Lo stesso José Luís Rodríguez Zapatero, che per Viola solo chiese a Chávez di contenersi, nel difendere José María Aznar utilizzò uno ed un solo argomento di stampo berlusconiano e che certamente Viola non condivide: “non è possibile accusare Aznar (di avere contribuito ad organizzare -come provato- il golpe dell’11 aprile 2002 a Caracas, fatto riconosciuto perfino dal Ministro degli Esteri spagnolo Miguel Ángel Moratinos) in quanto eletto dal popolo spagnolo”. “Non si può processare Silvio Berlusconi perché è stato eletto dalla maggioranza degli italiani”. “E’ vero che Aznar è un golpista, Moratinos lo può dire, ma io non posso permettermi di farmelo dire in faccia”. Viva Zapatero? Chi tra Chávez e Zapatero in questo caso è il politico quaquaraquà?
Nessun tribunale penale internazionale ha ancora incriminato José María Aznar (e George Bush) per il golpe in Venezuela ma siamo certi che persone dabbene come Sandro Viola plaudirebbero se così fosse.
Sandro Viola non sembra ferrato sui dettagli dell’esempio al quale dedica più di mezzo articolo, ricorda che Zapatero difese Aznar ma non cita il perché. Come la maggior parte dei suoi lettori non ricorda nulla o quasi del sanguinoso golpe dell’11 aprile del 2002 a Caracas ed estrapola dalla sua memoria un frammento di TG e vi costruisce un ragionamento. Un ragionamento che però si basa su di un falso storico, basta vedere il video per convincersene, un’estrapolazione falsa e tendenziosa che fu costruita a tambur battente dal più grande gruppo mediatico spagnolo e latinoamericano, il Grupo Prisa, quello del quotidiano El País e da TVE, in sinergia con la corona, il PSOE, il PP e la Confindustria di quel paese, per disinnescare un vertice iberoamericano dove finalmente si parlava liberamente dei crimini commessi dalle multinazionali di quel paese.
Quella spagnola fu una manipolazione alla quale i media occidentali si adattarono docilmente, non avendo alcun motivo (se non la decenza) per non adattarvisi. In contemporanea con quei fatti chi scrive era a Londra e ne discusse col vicepresidente del Parlamento Europeo Miguel Ángel Martínez, del PSOE, lo stesso partito di Zapatero, con il quale mi trovavo in piena sintonia: “quando si tratta di America Latina -mi disse Martínez- El País è nient’altro che destra dura e pura”. Peccato che in troppi non lo sappiano o facciano finta di non saperlo.
Ricordo perfettamente in quei giorni una conversazione con un giovane brillante giornalista che lavora per il servizio pubblico. Espertissimo di politica internazionale, sinceramente appassionato al suo lavoro, è capace di citare a memoria tutti i passi di frontiera tra Kurdistan turco e Kurdistan iracheno. Parla un sacco di lingue e, per il lavoro che fa, è voracissimo d’informazione.
Purtroppo quando si tratta di America latina però non esce da una ed una sola fonte per lui necessaria e sufficiente: El País di Madrid. Anche lui come Viola oggi, non era sfiorato dal dubbio che la realtà fosse quella raccontata da El País: “Fammi il favore -gli chiesi- guardati il video di Santiago, è assolutamente evidente che al vertice non è successo quello che i media raccontano, ma che a partire dalla Spagna è stata costruita una realtà virtuale per nascondere altre cose che sono successe e che i media sono indotti ad occultare”. Sono sicuro che il mio consiglio rimase inascoltato e che né il mio amico né Sandro Viola abbiano visto un fotogramma in più di quel “por qué no te callas” che fece il giro del mondo.
E non l’hanno visto per quello che è uno dei drammi dell’informazione attuale: aver visto comporta mettere in moto la coscienza. Aver visto, conoscere i fatti e non fare i passacarte senza leggere, verificare, controllare, comporta il libero arbitrio di una scelta. Se hai visto, ti sei informato anche da fonti neutrali e indipendenti, e poi pretendi di raccontare quello che hai visto, allora passerai un sacco di guai. Se sei precario perderai il lavoro oppure non farai mai carriera. Se hai visto, ma scegli di raccontare la versione mainstream dei fatti, quella cucinata, allora sei in malafede ma puoi aspirare a diventare Gianni Riotta. Ma c’è una terza via, non vedere, commentare solo la versione che tutto il mondo già commenta. Appiattirsi su quello che qualcun altro ha pensato per noi.
Oltretutto il giornalismo moderno, con la subdola necessità di ridurre i costi, va in questa direzione e trasforma sempre più i giornalisti in precari passacarte ricattabili. Chi me lo fa fare di scoprire che El País (o Repubblica, o il Corriere, o il TG1) mente? E poi, oltretutto, cane non morde cane. Lo abbiamo visto quest’estate col vergognoso caso delle false interviste a cospicui personaggi latinoamericani pubblicate da Il Venerdì di Repubblica: a parte il Manifesto, che infatti chiuderà tra poco, tutti gli altri hanno fatto finta di non vedere. Meglio dunque restare nel flusso dell’informazione mainstream e continuare a fare da passacarte di verità costruite a monte. Si fa anche prima e si lavora meno. Ma è il giornalismo dei quaquaraquà.