Radio, Tv e giornali italiani danno discreto spazio al fatto che il quotidiano statunitense New York Times, per la prima volta in tre anni e mezzo, mostri le immagini del funerale di un caduto in Iraq. È il New York Times, non la Fox, eppure la notizia resta rilevante. Se George Bush non è mai andato ad un solo funerale dei 2811 caduti in Iraq finora ufficialmente celebrati, mentre in Italia la presenza delle massime cariche dello Stato è indispensabile, ci sono ragioni e differenze culturali profonde.
La notizia, e la rappresentazione della notizia, offrono la possibilità di molteplici spunti di riflessioni su Stati Uniti, Italia, guerra e rappresentazione della morte. Il primo è l’intimità della cultura dominante statunitense con l’idea della morte in combattimento. Morire in guerra è un fatto possibile negli Stati Uniti laddove in Italia risulta intollerabile. La morte in guerra è accettabile socialmente, redime ed è perfino desiderabile se dà alla legione straniera -guatemaltechi, honduregni…- che in larga misura combatte le guerre statunitensi, l’ambita cittadinanza ?americana?. Come nelle guerre combattute fino alla prima metà del XX secolo, sotto la bandiera a stelle e strisce si cade combattendo, eroicamente, offrendo il petto al nemico. La morte in guerra ha quindi un senso, patriottico e di riscatto personale. Intendere la guerra come ?inutile strage?, per stare a Benedetto XV, non ha cittadinanza in questa parte della cultura statunitense.
Tuttavia, anche negli Stati Uniti, la morte in guerra ha comunque un peso politico che per la classe dirigente è opportuno evitare di sostenere. Dissociare il caduto in guerra dall’evento del funerale di questo è una scelta politica necessaria. Il caduto muore pubblicamente in Iraq, poi viene seppellito privatamente in Arkansas o a Portorico. È utile a dissociare il caduto dal proprio intorno familiare sortendo un duplice effetto: non si collettivizza il lutto e si tergiversa sulla relazione tra lutto e scelta bellica. Se, dopo la morte in guerra, non si mostrano le conseguenti vedove ed orfani, la morte in guerra è slegata dalle sue conseguenze umane e sociali. Quindi la stampa statunitense, formalmente indipendente tanto da abbattere presidenti con il Watergate, ma comunque parte e supporto di quella stessa classe dirigente che le guerre vuole, si presta docilmente a nascondere all’opinione pubblica l’immagine della morte, del funerale del soldato. Questa mostra l’impotenza della potenza, e paradossalmente esalta l’assurdità del sacrificio. È libertà di stampa l’opportunismo patriottico? In tale contesto risulta coraggioso il News York Times che, solo al duemilaottocentoundicesimo morto, mostra finalmente qualche foto di un funerale. Deve avere a che vedere con il non combattere da 150 anni una guerra nel proprio territorio, con proprie rovine, proprie vittime civili. Nell’immagine di vedove ed orfani ? ovviamente se la mostrasse la FOX avrebbe un impatto diverso- cadrebbe il velo della retorica e resterebbe per la società statunitense solo il cui prodest. A chi conviene che John o Pedro siano rimasti orfani e Daisy o Juanita siano vedove?
IN ITALIA, la situazione è opposta. Le istituzioni ostentano la morte del soldato e la usano per legittimarsi e legittimare la guerra stessa. I media evocano ed ottengono la partecipazione popolare in forme ottocentesche. Criticare la guerra diviene “offendere i nostri morti”, dei quali viene pubblicizzato il dolore delle famiglie, disfattismo e tradimento. Com’è possibile uno scarto così evidente rispetto all’uso pubblico della morte in guerra che fa il nostro maggiore alleato?
Forse perché l’articolo 11, che ripudia la guerra, si dimostra consustanziale con la sensibilità di un paese dove vivono ancora milioni di persone che l’hanno visto distrutto. L’Italia ripudia la guerra non per un volontarismo retorico dei costituenti o, più recentemente, del movimento pacifista, ma perché ne conosce (ancora, per il momento) l’orrore sulla propria pelle. La guerra appare ripudiata nel profondo da settori molto ampi dell’opinione pubblica italiana. È difficile, anche per un italiano fortemente filostatunitense, ricorrere al linguaggio utilizzato nei paesi anglosassoni per difendere la guerra stessa e per rappresentarla. Mi riferisco per esempio alla giustificazione razzista, per l’uccisione di migliaia di civili innocenti, data mille volte da George Bush: ?è utile a salvare vite americane?. Se mostrare la morte del soldato negli Stati Uniti è considerato poco conveniente e disfattista, in Italia al contrario serve da monito ed elemento di coesione: i morti delle guerre coloniali di inizio XXI secolo, prima di essere ?morti per la pace?, devono essere rappresentati innanzitutto come ?i nostri morti?. È l’unica guerra possibile per gli italiani perché in Italia sussiste l’impossibilità culturale di andare ?à la guerre comme à la guerre?. Il militarismo dei colli fatali è inutilizzabile perché produce sempre e comunque un saggio rifiuto nell’opinione pubblica italiana. La buona bastonatura data al fascismo l’ultima volta che l’Italia ha avuto ambizioni da grande potenza, sembra ancora attualissima. Per una volta, in un tempo nel quale la memoria è evanescente, quella memoria, la memoria dell’orrore della guerra, sembra permanere e trasmettersi tra generazioni.
Non c’è bisogno di ricorrere ad Hollywood per rappresentare la morte in guerra in Italia. Ed allora è necessario uno sforzo retorico uguale e contrario da parte dei dirigenti politici che la guerra vogliono o devono imporre al paese, spesso senza entusiasmo. È lo sforzo che compiono i dirigenti del centrosinistra per mantenere le truppe in Afghanistan. Ed allora non è solo il gioco di ossimori -“soldati di pace”, “guerra umanitaria”- a risultare stucchevole. E’ la necessità di esaltare la morte del soldato come elemento di unificazione nazionale a risultare un elemento coercitivo irrinunciabile. E’ tipico, intimo, della cultura militarista, l’incitare alla guerra in nome dei caduti. Ritirarsi sarebbe tradirli. Ma il caduto di Nassiriya non è più il milite ignoto che spinge ad altri lutti per la grandezza d’Italia. Semmai il suo ruolo coesivo in quanto ?soldato di pace? è più affine e comparabile alla ?missione civilizzatrice? con la quale si giustificava il colonialismo classico. In molti modi la retorica del ?soldato di pace? svela anche culturalmente la natura coloniale delle guerre attuali. La ?missione civilizzatrice? è divenuta ?esportazione della democrazia?, ma è sempre l’uomo bianco a giustificare ?a se stesso innanzitutto- la politica di rapina coloniale come prova di altruismo.
Non è la sola contaminazione tra secolo XIX e XXI. Infatti, senza la retorica sugli “eroi di Nassiriya”, non sarebbe possibile il sincretismo che giustifica le “missioni di pace”. Sincretismo perché combina la ripresa di elementi ottocenteschi della nazionalizzazione delle masse ma, invece di combinarli nella rappresentazione di sé come succede nella prima parte del XX secolo col nazionalismo aggressivo, li riconiuga come presunta necessità solidale di esportare pace e democrazia riprendendoli e coniugandoli con stilemi neoconservatori.
Il cittadino statunitense può permettersi di vedere nell’altro il nemico da colpire, può permettersi di smantellare un paese lontano per salvare (forse) “vite americane“. Ma in Italia la legge del west non passa ed è necessario coniugare elementi diversi. Negli Stati Uniti, ma anche in Gran Bretagna -sarà che anche gli inglesi non sono stati invasi da secoli?- a nessuno verrebbe in mente di fare tante circonlocuzioni per evitare la parola guerra. Sono in guerra e non la stanno neanche vincendo. Al contrario in Italia -ma è solo per l’Articolo 11?- si sono spesi fiumi di parole per chiamare “missione di pace” quella che i nostri alleati chiamano “guerra”. Più volte in questi anni abbiamo ottenuto imbarazzanti ringraziamenti per il contributo ad una ?guerra? che noi ci ostiniamo a chiamare ?missione di pace?. Se non ci fosse stato l’Articolo 11 alcuni si sarebbero sentiti liberi di chiamarla guerra. Ma non sarebbe stato sufficiente come per molti non è stato sufficiente giustificare la guerra con la riconoscenza verso gli Stati Uniti, che ci liberarono nel 1945. Infatti -e perciò sostengo che l’Articolo 11 sia intimamente parte della cultura italiana- un discorso sulla necessità della guerra in quanto interesse nazionale, ovvio negli Stati Uniti, va edulcorato in Italia fino a negare per esempio che l’ENI, o chi per lei, avesse avuto interessi nella regione di Nassiriya. È culturalmente inammissibile anche solo pensare che i nostri soldati siano andati a Nassiriya per difendere interessi economici. La destra non lo rivendica -anzi lo ha negato a lungo, scandalizzata- e solo una parte dell’estrema sinistra lo denuncia. Si continua, anche adesso che i nostri sono andati via, a parlare d’altro, della natura della missione, se di pace, o di guerra.
Perfino la visione dell’altro, del nemico tra Stati Uniti ed Italia è inconciliabile. Il concetto del fare la guerra, dell’essere accettabile uccidere civili inermi per “salvare vite americane” -ed infatti muoiono i salvadoregni- è ripetuto fino alla nausea negli Stati Uniti. A costo di rappresentare se stesso come Caronte nell’Ade, l’unico dovere di Bush è proprio “salvare vite americane”. Per la maggioranza dell’opinione pubblica statunitense con ciò si giustifica tutto, le armi chimiche, la tortura, i massacri di civili. Semmai la colpa di Bush è “non aver vinto”. Nonostante le campagne di stampa antimusulmane e la xenofobia diffusa in Italia, va riconosciuto che nemmeno il leghista Roberto Calderoli si è mai azzardato a sostenere che gli alpini siano in Afghanistan per “salvare vite italiane“.
Si scontrano pertanto due visioni della guerra, e della morte in guerra, inconciliabili. Da una parte ?negli Stati Uniti- si nascondono le bare, si nascondono i funerali, perché demoralizzerebbero ?Vietnam docet- e debiliterebbero la rappresentazione della guerra come esercizio sommo di superiorità e di eroismo. È una triste nemesi se dopo tre anni di guerra e 2811 morti, la scelta del New York Times di mostrare qualche foto del funerale di un caduto, venga vista come coraggiosa.
Dall’altra parte -in Italia- senza la rappresentazione delle bare, dei morti, degli orfani e delle vedove, non sarebbe possibile costruire neanche la retorica del “restare per onorarne la memoria”, che comunque mal si concilia con l’idea di missione di pace. Se non siamo “in guerra per” è difficile giustificare la morte. Ma in Italia non si può essere “in guerra per”. Così il soldato italiano non può offrire il petto al nemico. Muore da eroe ma è un eroe discontinuo rispetto all’idea di eroicità connessa al militarismo. Gli “eroi di Nassiriya” sono morti facendosi la barba, prendendo il caffé o chattando al computer con l’Italia, non compiendo azioni eroiche. E se il loro eroismo non è stato avere esercitato l’arte delle armi, ma è semplicemente l’essere andati in Iraq, non si capisce il viscerale odio verso figure come quelle di donne coraggiose quali le due Simone, o la stessa Giuliana Sgrena, che viaggiavano disarmate nell’Iraq occupato. Il paradosso è che l’identificare come eroe perfino il cuciniere che non ha fatto altro che cucinare, smantella la retorica militarista più di ogni altra cosa. Se sono tutti eroi per il solo fatto di essere andati in Iraq, chi compie davvero un atto di eroismo cos’è? Così si spiega la solidarietà bipartisan alla scomoda figura di Nicola Calipari, oppure l’esaltazione della figura del mercenario Fabrizio Quattrocchi, che appare alla cultura militarista come l’unico italiano che si sia veramente potuto permettere il lusso di morire in guerra, in questo tempo di ipocrita pace ufficiale.
Guai dunque a compiangere i poveri morti di Nassiriya come vittime. E’ quel che sono ma devono essere anch’essi rappresentati come eroi, perché abbiamo bisogno di eroi. Ma sono purtroppo eroi che muoiono sul lavoro come gli operai edili, senza scarpe antiscivolo e senza retorica. Allo stesso modo, i caduti in imboscate tese dal nemico -quindi in azioni di guerra- e che potrebbero anche essere stati eroici, devono al contrario essere spogliati della loro eroicità; non fu imboscata, fu attentato, si affannano a correggere i media mainstream in un’essenziale battaglia per le coscienze. Ma fu attentato per motivi diversi per i quali un’azione viene definita attentato negli Stati Uniti. Lì è attentato e non imboscata per delegittimare il nemico, i resistenti, sempre stranieri, sempre isolati, sempre e solo terroristi. È la logica dell’ ?Achtung banditen?, che accomuna i Marines alla Wehrmacht. Anche per gli italiani ?soprattutto per le destre- è importante non distinguere e definire tutti i resistenti come terroristi. Ma c’è dell’altro ed è più importante.
Riconoscere un’imboscata come tale significa ammettere l’esistenza di una guerra, cosa che i nostri alleati possono fare, ma noi no. Quindi è necessario che i nostri siano morti in un attentato, perché è la conferma che sono morti in pace. Quello che è certo è che la retorica militarista di un tempo, dell’eroe, almeno in Italia, non è più proponibile. Ne va imposta una nuova, strillandola, e va imposta insieme all’immagine del lutto perché è questo, non la guerra, a generare rispetto. A guardar bene, se è il dolore della famiglia del caduto l’agente della legittimazione della guerra/missione di pace, questa è la più grande delegittimazione della guerra stessa. A nessun italiano, politico o militare, verrebbe in mente di dire che in Afghanistan si muore per “salvare vite italiane”. Ed è un bene.