Gennaro Carotenuto, Giornalismo partecipativo. Storia critica dell’informazione al tempo di Internet, Modena, Nuovi Mondi, 2009, pp. 351. ISBN: 9788889091715, Acquista subito al prezzo speciale di 10.20 Euro.
Introduzione
La storia dei media digitali ha ormai trent’anni. La prima BBS fu creata a Chicago da Ward Christiansen nel 1978. Già l’anno successivo partì la rete Usenet, che aveva nel proprio DNA l’incontro tra la necessità e la possibilità di far circolare informazione. Nel 1980 nacque, sempre in Nordamerica, la prima BBS che privilegiava tematiche politico-sociali. Nel giro di pochi anni nelle BBS e poi in Internet (che nel 1992 contava già un milione di nodi nel mondo) sempre più persone cercavano e producevano informazione su temi sottaciuti dal sistema mediatico tradizionale incentrato su TV, radio e carta stampata. Parallelamente, dai primi anni ’90 cominciavano a diffondersi i telefoni cellulari, che ormai sono arrivati nelle tasche di oltre la metà degli abitanti del pianeta. Nel quadro della rivoluzione comunicativa e informativa in atto, persino un telefono, sia pur mobile e tecnologicamente all’avanguardia, mostra insospettate capacità di produrre – e non solo ricevere – informazione.
Milioni di persone, inizialmente soprattutto nei continenti europeo e americano, avvicinate tra loro dalla telematica, per la prima volta avevano a disposizione uno strumento nuovo per trasmettere, ricevere e far circolare informazione su temi altrimenti ignorati dai media. Quei precursori stavano sviluppando gli strumenti di quello che sarebbe divenuto il primo “medium personale di comunicazione di massa” in grado di trasmettere contenuti in orizzontale, da molti a molti, rispetto ai media tradizionali che per loro natura comunicano da pochi a molti agendo nell’ambito di sistemi di oligopolio, quando non addirittura di monopolio reale o di fatto.
I padri fondatori di Internet, tra cui l’inventore del World Wide Web, Tim Berners-Lee, che lo volle gratuito rilasciandone liberamente il software, insieme a milioni di semplici utenti, fin dall’inizio credevano fermamente all’idea di una Rete senza padroni. Ogni volta che fu necessario si opposero in maniera pervicace a qualunque tentativo di addomesticare o controllare la rete messo in atto da governi e multinazionali.
Nella seconda metà degli anni ’90 Internet diveniva centrale nel boom della cosiddetta new economy. Una parte essenziale dell’economia dei servizi, del commercio, della pubblica amministrazione si dematerializzava. Uno dei settori maggiormente trasformati dall’impatto con la Rete era il mondo dell’informazione che, nei decenni precedenti, aveva già visto grandi innovazioni tecnologiche, dalla stampa a freddo alla fotocomposizione, all’arrivo del PC nelle redazioni – nessuna delle quali, tuttavia, aveva minacciato la centralità dei media tradizionali.
L’intervista di Alessio Ruta e Giampaolo Paticchio di ArcoirisTv a Gennaro Carotenuto
Con Internet il salto era netto e definitivo. Cambiavano sia le pratiche della professione sia l’interfaccia verso il pubblico, che in misura crescente acquisiva strumenti per divenire attivo, e spesso mediattivo. Nasceva un nuovo medium a tutti gli effetti, del quale nei primi anni ’90 si era ben lungi dall’intuire le enormi potenzialità. Malgrado queste innovazioni, il futuro del giornalismo appariva tutt’altro che radioso: in coincidenza con tale processo, e non solo a causa di questo, soprattutto la carta stampata vedeva infatti accelerarsi una crisi che tuttora appare inarrestabile tanto in termini di vendite quanto di credibilità.
Nei paesi più avanzati tale processo era iniziato negli anni ’60 per subire una netta accelerazione negli anni ’80, quando la televisione commerciale aveva espugnato l’Europa occidentale. Segnava l’approdo dell’evoluzione di lungo periodo della società di massa, della crescente concentrazione editoriale, del predominio del ruolo della televisione (in particolare quella commerciale), e della deviazione e sostanziale scomparsa, se mai era esistito in quanto tale, del cosiddetto Quarto potere. Il giornalismo rinunciava nella pratica al ruolo di garante del diritto a un’informazione senza compromessi, ruolo che era stato ricoperto da Walter Lippmann, Robert Capa e ancora negli anni ’70, con il Watergate, da Bob Woodward e Carl Bernstein, oggi convinto assertore dell’uso di Internet come alternativa alla disinformazione diffusa dai grandi media. Questo cambiamento era dovuto al fatto che gli sponsor avevano rimpiazzato i lettori o gli spettatori come primi finanziatori dei media. Nel corso del tempo i guadagni ottenuti con la pubblicità sono arrivati a coprire fino al 70% degli introiti dei giornali, una percentuale che sale al 95% nel caso della televisione commerciale. Il marketing ha finito così per orientare le rappresentazioni della società che i media propongono all’opinione pubblica.
Non è una cesura da poco: per spiegarla potremmo parafrasare il vecchio adagio del presidente della General Motors, Charles E. Wilson. Quando, nel 1953, fu nominato ministro della difesa dal presidente statunitense Dwight D. Eisenhower, Wilson affermò che “ciò che è buono per la General Motors è buono per gli Stati Uniti d’America”. Allo stesso modo oggi i media, che devono la loro sopravvivenza agli sponsor, decidono di comunicare al pubblico solo ciò che è vantaggioso per chi li finanzia.
Il pioniere tra i giornali che conquistarono la Rete fu il Chicago Tribune, online dal 1992; in Italia il primo a seguirlo fu L’Unione sarda nel 1994. A quasi vent’anni anni di distanza è opportuno fare un bilancio su un giornalismo online che non rappresenta più soltanto il futuro, ma anche il passato recente e il presente dell’informazione. Tale bilancio ci testimonia che la trasposizione in Internet del giornalismo non ha arginato la crisi della professione. Questa, anzi, accelera sul breve periodo e la presenza della Rete appare per molti versi un fattore aggravante della crisi stessa. La storia del giornalismo digitale copre un arco temporale che corrisponde alla metà della storia della televisione e a un terzo di quella della radio, pertanto rientra a pieno titolo nella storia del giornalismo stesso. Se l’informazione online è una nicchia, a tale nicchia guardano quasi cento milioni di statunitensi, vale a dire un terzo dell’intera popolazione (e quattro italiani su dieci sotto i 50 anni), che dichiarano di informarsi anche o prevalentemente online. Fin dai suoi albori, inoltre, la storia dell’informazione in Internet, quella ufficiale e quella alternativa, si interseca con la storia dell’informazione tutta, con la maniera di lavorare nelle redazioni, con nuovi rapporti di produzione, essendo parte, causa e forse anche possibile soluzione della crisi di lungo periodo del giornalismo.
Gennaro Carotenuto, Giornalismo partecipativo. Storia critica dell’informazione al tempo di Internet, Modena, Nuovi Mondi, 2009, pp. 351. ISBN: 9788889091715, Acquista subito al prezzo speciale di 10.20 Euro. |
La letteratura scientifica sul tema dell’informazione digitale proviene non tanto dalla storiografia ma da altre discipline come la sociologia, la teoria della comunicazione, l’informatica. Spesso ci si rifà a guru (o presunti tali) come lo statunitense Nicholas Negroponte o a pionieri della network society come il catalano Manuel Castells. Oppure a giornalisti specializzati e di frontiera, sensibili e non arroccati in difesa della professione, come Luca De Biase, Vittorio Zambardino e, primo in Italia, Franco Carlini, profondo innovatore che si divise sempre tra giornalismo e ricerca scientifica. A lui si devono illuminanti riflessioni sulla società digitale. Fino a ora, in una prospettiva storiografica generale, Internet e i media orizzontali sono rimasti confinati nel ruolo di addenda finali della storia del giornalismo. Malgrado in una prospettiva di lungo periodo questo appaia metodologicamente ineccepibile, è arrivato il momento di collocare al centro, e non nella periferia, di tale prospettiva questa importante fase della storia dei media. Sui temi in questione, infatti, la vastissima documentazione attualmente disponibile permette di non fermarsi più a semplici conclusioni ipotetiche o a valutazioni incerte. Nonostante per alcuni il mondo digitale rientri ancora nella sfera della futurologia, i cambiamenti già occorsi e la compartecipazione del medium Internet alla profonda mutazione dell’informazione e della professione giornalistica rendono possibile e necessario considerare anche la Rete come oggetto di studio.
Lo studio delle fonti, con la particolare cautela che meritano quelle digitali, ma verso il quale occorre vincere ogni riluttanza visto che, come ricorda Giovanni De Luna, oggi solamente lo 0,0003 dell’informazione prodotta a livello mondiale viene memorizzato su carta, ribalta la vulgata secondo la quale sarebbe stata la “new economy” a creare il contesto tecnologico e il mercato per la nascita del giornalismo online. Al contrario, quello dell’informazione digitale è un mondo che è nato molto tempo prima, in piena autonomia culturale e non per gemmazione dai mass media tradizionali. Semmai, per contenuti e prassi antagonista, si ricollega (anche se non in maniera esclusiva né diretta, e con un chiaro scarto generazionale) alla persistenza della comunicazione di movimento degli anni ’60-’70. Negli anni ’80 e nei primi anni ’90 i mass media erano ancora ben lungi dall’usare la Rete, alla quale sarebbero arrivati solo più tardi, loro sì sull’onda della “new economy” clintoniana e fiduciosi nella promessa delle autostrade digitali di Al Gore.
I primi anni dell’era digitale sono dunque importanti. Il Web genera prassi comunicative e metodi di lavoro focalizzati sulla condivisione della conoscenza. È un mondo che nasce profondamente influenzato dalla ricerca scientifica, segnato in particolare dalle innovazioni tecnologiche nel campo dell’informatica e del software libero e marcato dalla verificabilità resa possibile dall’ipertestualità. Questa facilita un sistema di valutazione tra pari, orizzontale, destinato a diventare sempre più cruciale negli anni successivi. Questo primo periodo costituisce l’imprinting della Rete, che si manterrà tale anche in futuro, quando arriveranno i grandi investimenti, il grande pubblico, i grandi media.
Un giornalismo digitale, che si avvale della telematica (il termine allora in voga e oggi desueto) per fare informazione e farla circolare, era dunque già nato come medium autoctono fin dagli anni ’80. Solo a metà del suo cammino, a metà degli anni ’90, sbarcarono in Rete i media tradizionali, che non si aspettavano di trovare un terreno già seminato e dal carattere ben definito con il quale avrebbero avviato una relazione difficile e dai molti aspetti irrisolti.
Tema di questo saggio è la crisi che da trent’anni colpisce il giornalismo in parallelo con lo sviluppo dei “media personali di comunicazione di massa” quali Internet o il telefono cellulare. Questi nuovi media stanno segnando un vero punto di svolta nella storia dell’informazione, nella misura in cui permettono a un numero di persone ampio come non mai di comunicare verso molti interlocutori, mettendo in dubbio la centralità stessa del mainstream.
Internet, l’Internet dell’informazione, la Rete come mezzo di comunicazione di massa, è mutevole e in continua trasformazione, cangiante fino a mostrarsi iridescente a seconda di dove e da dove la si guardi, ma resta fedele ad alcune linee di fondo della cultura digitale tratteggiata fin dagli anni ’80. Studiandone la storia, emerge la precisa peculiarità del mezzo: lo sviluppo di una comunicazione fondata sull’orizzontalità rispetto alla verticalità della diffusione tradizionale. Per sua natura tale comunicazione orizzontale è in grado di confrontarsi, a volte scontrarsi, ma più spesso lavorare in sinergia con i mass media tradizionali.
In Rete la comunicazione avviene da molti a molti. Anche chi è esclusivamente recettore di informazione può scegliere tra un numero di alternative la cui ampiezza non conosce precedenti nella storia, instaurando confronti tra i vari media, valicando i confini, superando la temporalità e creandosi una propria agenda informativa ad assetto variabile. Inoltre, l’utente attivo della Rete ha mille modi per interagire, commentare, partecipare. Negli ultimi 15 anni il modello broadcast che vedeva i pochi deputati a comunicare ai molti, incarnato dai media tradizionali, ha potuto fare ben poco per scalfire l’orizzontalità di un medium rivelatosi pressoché impermeabile alla concentrazione editoriale. Anzi, le moltitudini che comunicano in orizzontale – la cosiddetta “coda della cometa” o “coda lunga” teorizzata da Chris Anderson, direttore della rivista Wired, il mensile simbolo dell’era digitale – sembrano avere la capacità di controbilanciare il persistente peso del nucleo rappresentato dai pochi che comunicano a molti.
Con “coda della cometa” in questo contesto si intende lo sciame di agenti informativi, di medie, piccole o piccolissime dimensioni, in genere nati con la Rete, la forma più conosciuta dei quali (ma non l’unica) è quella dei blog. La multinazionale Google, con il motore di ricerca omonimo, ha avuto un ruolo fondamentale nel valorizzarli, innanzitutto indicizzandoli e poi attribuendo loro un valore economico grazie alla sua pubblicità contestuale. Si è formato così un ambiente tecnologico ma anche economico nel quale, con i “mass media” propriamente detti, convivono milioni di “media personali di comunicazione di massa”. Vengono così abbattuti gli steccati tra le diverse forme di comunicazione in una convergenza che non è solo quella immaginata dalle grandi imprese del settore (ad esempio, il triple play tra TV, Internet e telefonia); allo stesso modo, cadono anche le barriere tra produttori e consumatori di informazione. Le implicazioni di tutto questo per il mondo dei media e non solo per quella fetta di popolazione che già si informa soprattutto con la Rete sono di vasta portata. L’elezione di Barack Obama, gli attentati di Madrid dell’11 marzo 2004 e la loro influenza sul voto avvenuto tre giorni più tardi, l’industria discografica, il modello di Wikipedia sono solo alcuni esempi che aiutano a comprendere meglio le caratteristiche antimonopolistiche della Rete.
All’edicola dietro l’angolo troviamo da sempre le stesse 15 o 20 testate nazionali e locali. Queste, pur non agendo in regime di monopolio, non temono in alcun modo la concorrenza dell’Asahi Shinbun di Tokio, come questo, in Giappone, non si fa influenzare da Il Resto del Carlino. Sul telecomando della TV via etere, nonostante il digitale terrestre, le cose sono lente a cambiare e ai primi posti si assestano stabilmente le stesse reti, in particolare in Italia i tre canali RAI e i tre Mediaset, Orazi e Curiazi oramai pienamente pacificati e omologati sia sul piano del modello comunicativo che degli interessi politici ed economici rappresentati. Nonostante le modalità di fruizione della televisione, soprattutto da parte dei giovani, negli ultimi anni abbiano subito profondi cambiamenti, occorre andare sul satellite per trovare alternative alla concentrazione monopolistica del messaggio.
Anche in Italia molti grandi media hanno puntato in maniera convinta sul formato online, a partire da La Repubblica che dichiara circa 1,2 milioni di lettori unici al giorno. Lo hanno fatto tuttavia senza sciogliere due nodi fondamentali: innanzitutto, l’informazione prodotta per Internet dal mainstream è peggiore, più sciatta, più corriva di quella destinata alle testate tradizionali. È un’informazione a basso costo, in cui la precarietà dei rapporti di produzione è centrale e va a totale detrimento dell’indipendenza dei giornalisti. Il secondo nodo è rappresentato dal fatto che il modello di business della stampa digitale rafforza il rapporto perverso con la pubblicità senza cercare il consenso dei lettori rappresentato dal pagamento dei contenuti.
Nonostante i media tradizionali attirino moli importanti del traffico generale, sussiste un processo, informativo ed economico, che decongestiona in molti modi (per il momento ci limitiamo a uno) l’informazione online. Nel modello di business del Web 2.0, quello delle pagine dinamiche, è probabile che chi entra in un sito italiano dal Vietnam veda pubblicità vietnamite mentre accedendo alla stessa pagina dall’Olanda vedrà pubblicità olandesi, trasparentemente combinate con gli stessi contenuti. Poco importa agli sponsor a chi pagano gli spot. L’essenziale è che questi siano visti da chi realmente è interessato ai loro prodotti.
Di conseguenza, supponendo che nel nucleo della cometa ci siano dieci grandi media online da un milione di euro di raccolta pubblicitaria a testa, ma la coda comprenda un milione di micromedia da dieci euro ciascuno, se si trova un modo efficace di deframmentarli, questi ultimi nell’insieme risulteranno economicamente appetibili e competitivi tanto quanto i grandi. E i Google AdSense, i blocchi di pubblicità (capaci di accoppiare a una pagina su un paese esotico la pubblicità di una compagnia di voli lowcost), che rappresentano la vera chiave della dinamicità del Web 2.0 e vengono inseriti anche in siti con pochissimi lettori, costituiscono uno strumento efficacissimo per ottenere questo risultato. Secondo Bits, il blog sull’innovazione tecnologica del New York Times, Google pubblica su milioni di siti la pubblicità di 1,5 milioni di imprese. Il paradosso sta quindi nel fatto che il motore di ricerca costruisce il proprio monopolio esaltando le caratteristiche antimonopoliste congenite del medium. Il fatto che solo un colosso multinazionale come Google, approfittando del ruolo dominante del proprio motore di ricerca, appaia oggi in grado di sfruttare appieno le potenzialità pubblicitarie del medium ha risvolti preoccupanti per i media tradizionali, finora incapaci di farsi pagare dal pubblico anche perché abituati a trattare meglio con i pubblicitari che con i lettori/spettatori. Tuttavia anche Google non inventa. Anzi, utilizza una preesistente “economia della ricerca” scommettendo su una coda lunga che già esiste e che attraverso i collegamenti ipertestuali, i link tra sito e sito, ha tessuto reti da molto prima che Google fotografasse l’esistente. Così i link sono la porta d’accesso a un percorso informativo originale e di redistribuzione di autorità rispetto all’autoreferenzialità del mainstream.
Nel corso del XX secolo, proprio la concentrazione editoriale dei media commerciali ha stritolato la concorrenza lasciando sul mercato un numero limitato di soggetti. Nonostante il ruolo di Google come soggetto monopolista sul mercato dei motori di ricerca (che l’ha reso capace di ottenere una posizione dominante anche in termini di raccolta pubblicitaria e domani nel campo parzialmente inesplorato dei micropagamenti) appaia abnorme, va ricordato che la società statunitense, diversamente da quanto accade nel mercato pubblicitario tradizionale, non ha il controllo sui contenuti. In altre parole Google, almeno a grandi linee, non discrimina tra chi parla bene e chi parla male di una nota bibita gassata o del governo di un paese per piazzare pubblicità contestuali che invitano a visitare quel paese. Visto dall’Italia, dove il capo del governo Silvio Berlusconi invitò gli imprenditori a non investire in pubblicità sui media a lui sgraditi, Google si configura come un monopolista democratico. Sul piano dei contenuti, il fatto di non dispensare risorse sulla base di appartenenze ideologiche, vicinanze economiche o contatti personali, ma semmai facendo proprio l’aforisma di Oscar Wilde “bene o male l’importante è che se ne parli”, profila un modello digitale che opera un riequilibrio legittimando voci non mainstream o che comunque non mettono necessariamente il profitto al primo posto.
È una sorta di riforma agraria dell’informazione (in parte) garantita da un nuovo soggetto monopolista, il motore di ricerca dominante, in grado di censire e valorizzare i contenuti digitali indipendentemente dai rapporti intrattenuti con gli sponsor o dalla cultura che questi esprimono. Ciò testimonia che l’informazione prodotta in Rete può essere sottovalutata, criticata e a volte perfino dileggiata (come nel pamphlet di Andrew Keen Dilettanti.com osannato dai media mainstream) dal giornalismo tradizionale, ma non ignorata né per qualità né per valore economico, avendo da tempo raggiunto un peso specifico proprio nell’economia dell’informazione e nei processi di composizione dell’opinione pubblica.
Anzi: il ruolo dell’informazione online, accessibile agli “inclusi” del digital divide (d’ora in avanti “divario digitale”), appare oggi talmente cruciale da spingere molti analisti a ipotizzare che nel 2008 senza Internet Barack Obama non sarebbe mai diventato presidente degli Stati Uniti d’America. Obama ha raccolto 1,5 miliardi di dollari per la sua campagna elettorale. Ben 600 milioni (il 40% del totale) sono venuti da tre milioni di micro-contribuenti (200 dollari in media, ma la maggior parte ha effettutato donazioni di valore comparabile al costo di una pizza) i quali hanno versato online piccole somme che probabilmente senza Internet non avrebbero mai donato. Se le grandi lobby restano il nucleo, quei tre milioni di persone sono la coda della cometa che neanche il presidente degli Stati Uniti può permettersi di ignorare.
D’altra parte, chi può ignorare che nel 2004 centinaia di migliaia di cittadini spagnoli utilizzarono Internet e soprattutto il cellulare come “media personali di comunicazione di massa” per lanciare la propria sfida al governo e ai media mainstream, che pretendevano di imporre una verità di comodo sugli attentati di Madrid dell’11 marzo? Proprio l’esigenza di un’informazione senza menzogne finì per ribaltare l’esito delle elezioni nazionali della domenica successiva.
Questo esempio, emblematico delle possibilità offerte dai nuovi media, verrà analizzato in dettaglio nel terzo capitolo. I cellulari di Madrid, i computer perennemente collegati a Internet, gli e-book, gli iPod o i lettori di musica in formato Mp3 sono la cifra di un’era della riproducibilità nella quale lo scambio di contenuti diviene orizzontale anche in industrie particolarmente concentrate come quella musicale. Pirateria o meno, gli ultimi dieci anni hanno visto ridursi notevolmente il predominio delle major e la conquista di quote di mercato sempre maggiori da parte di centinaia di etichette indipendenti. Le major fanno ancora i tre quarti degli utili complessivi, ma producono solo il 10% della musica in un contesto dove chi ne produce il 90% contrasta, esattamente come avviene per l’informazione, l’omologazione del prodotto musicale e rappresenta una coda della cometa sempre più significativa, qualitativamente ed economicamente.
Nel 2008 Wikipedia, l’enciclopedia tutt’altro che perfetta scritta interamente attraverso i contributi degli utenti, è stata utilizzata da circa 700 milioni di persone, un numero che corrisponde a una volta e mezzo gli abitanti dell’Unione Europea. Sergey Brin fa notare che appena lo 0,01% di questo 10% della popolazione mondiale ha contribuito attivamente alla produzione di contenuti. Brin è uno dei fondatori di Google che, con i citati AdSense, la sa lunga su come trasformare la coda della cometa in una miniera d’oro. Dà l’idea di un fallimento quel decimillesimo di utenti che diviene attivo rispetto a un 99,99% di fruitori non collaborativi; ma lo stesso Brin ci ricorda che lo 0,01% di 700 milioni di persone corrisponde pur sempre a 75.000 utenti attivi, che sono stati capaci di fornire ben 10 milioni di articoli editandoseli a vicenda.
Come al tempo di Jack London, in questa corsa all’oro l’affare non sta nel trovare materialmente le pepite ma nel fornire, quasi sempre gratis, la zappa, il badile, il rastrello, ovvero il motore di ricerca per essere rintracciati, il software per gestire i contenuti, la rete sociale per intersecare i contatti. Come testimonia la scatola magica di YouTube, a produrre (o a far girare) i video ci pensano gli utenti. In un simile contesto è inevitabile che chi, come i media tradizionali, ha come core business proprio la produzione e la vendita di notizie attraversi una crisi simile a quella patita dagli allevatori di cavalli all’invenzione del motore a scoppio. Il giornalismo in sé è lungi dallo sparire ed è ovviamente desiderabile che non scompaia. Tuttavia la strategia di sopravvivenza adottata, che accresce la sinonimizzazione tra informazione e comunicazione (dove è sempre più spesso la seconda a prevalere) e che precarizza il lavoro e ne abbassa la qualità, applicando al giornalismo le logiche dell’impresa just in time, è un pessimo segnale sulla salute della professione. Prima di Internet i cosiddetti media mainstream erano il sole intorno al quale tutto girava. Oggi sono ancora fondamentali, soprattutto per le masse di esclusi dal divario digitale.
Rappresentano tuttavia solo il nucleo di una cometa al quale si affianca una rutilante, nutrita, colorata, variegata e lunghissima coda che è sempre più difficile ignorare. E la coda della cometa è ormai una parte sostanziale del sistema informativo mondiale, visto che centinaia di milioni di persone ne soppesano quotidianamente l’importanza. Se il nucleo della cometa è ancora concentrato sulle Strand di Londra, in via Solferino a Milano, vicino al Palazzo (politico ed economico), la coda è invece diffusa e innerva tutto il territorio mondiale, materiale e virtuale, offrendone una diversa rappresentanza e rappresentazione. Le peculiarità della Rete hanno già retto a molti tentativi di decostruzione e hanno già respinto o costretto alla convivenza molti conquistadores. Anzi, sono stati proprio i conquistadores a doversi adattare ai costumi locali, acquisendo forme e abitudini creolizzate.
Gennaro Carotenuto, Giornalismo partecipativo. Storia critica dell’informazione al tempo di Internet, Modena, Nuovi Mondi, 2009, pp. 351. ISBN: 9788889091715, Acquista subito al prezzo speciale di 10.20 Euro. |
Per il giornalismo tradizionale l’avvento di Internet non si colloca in un momento storico qualsiasi. Se il primato dell’economia sulla politica è uno dei tratti caratterizzanti della società contemporanea, questa ha sottoposto il mondo dell’informazione a un processo di concentrazione e omologazione ampiamente studiato. È un modello che negli ultimi anni ha mostrato la corda da due punti di vista. Sul versante della credibilità del giornalismo viene incalzato dalla Rete, che offre un mondo informativo parallelo consentendo al pubblico una maggiore e immediata confrontabilità e verificabilità delle fonti. E sul versante economico, dove però il modello di business editoriale online non è ancora in grado di offrire un’alternativa a quello tradizionale in crisi.
Questo saggio delinea la storia del difficile rapporto tra i media tradizionali e la Rete, aprendo lo sguardo sul rigoglioso mondo dell’informazione generata dalle potenzialità di Internet, in cui si va sempre più nettamente profilando un nuovo giornalismo basato sulla partecipazione popolare, sul pensiero critico e su un abbattimento dei costi in grado di portare a una democratizzazione dell’accesso alle notizie e all’azzeramento delle distanze nella diffusione dell’informazione. È quel “giornalismo partecipativo” che dà il titolo al libro. È importante capire se tutto questo apra o meno la strada a una democratizzazione complessiva dell’informazione capace di agire in maniera virtuosa anche sul giornalismo tradizionale o se si risolverà in un appassionante gioco di società per un’élite di inclusi del divario digitale senza coinvolgere le masse di esclusi che continuano a non avere alternative al mainstream. Di sicuro, come osservava Walter Lippmann già nel 1921, le grandi masse continuano a essere numericamente vincenti e qualunque strategia informativa prescinda dal coinvolgerle resterà virtuale.
Il primo capitolo di questo saggio si occupa della crisi del giornalismo tradizionale, del suo impoverimento qualitativo, e della sua reale difficoltà a prescindere da una sinergia equivoca con gli sponsor e da un rapporto corrivo con la politica. Tale crisi conosce un punto di inflessione tra gli anni ’60 e i ’70, nel momento in cui gli introiti pubblicitari superano gli incassi delle vendite. Inizia allora un processo di divorzio tra il giornalismo e la società civile. Quel giornalismo al servizio dell’opinione pubblica che era stato parte di una certa mitologia della professione, da Joseph Pulitzer al Citizen Kane William Randolph Hearst, fino al Watergate e a Peter Arnett, e nel nostro paese da Eleonora Pimentel Fonseca a Luigi Albertini fino a Giuseppe Fava, Enzo Biagi o Indro Montanelli, entra in una fase nella quale l’editore di riferimento diviene l’investitore pubblicitario. A lungo andare, e soprattutto grazie a Internet, ciò fa sì che una parte importante del pubblico, quella che per cultura e disponibilità economiche è in grado di poter scegliere, cerchi alternative. Secondo il CENSIS, quattro italiani su cinque non si fidano più dei media tradizionali. Uno su due li accusa di mettere in atto strategie diversive per distogliere l’attenzione dai problemi reali diffondendo paure e allarmi immotivati oppure tergiversando con chiacchiere da bar sul freddo d’inverno e il caldo d’estate. Quote simili di sfiducia si registrano negli Stati Uniti. Per un numero crescente di persone l’alternativa può essere cercata in Rete: non perché il giornalismo via Internet sia più credibile, ma perché il pluralismo insito nel medium permette di creare un palinsesto informativo personale che l’omologazione dei media tradizionali non è più capace di garantire.
Il secondo capitolo mette in luce come negli ultimi tre lustri i media tradizionali abbiano usato Internet e da allora stiano cercando un modello editoriale ed economico sostenibile. L’osservazione empirica di quanto è avvenuto finora appare deludente: il giornalismo prodotto in Rete dai mass media risulta spesso più scadente, approssimativo e ammiccante rispetto a quanto si legge sulle testate tradizionali. Queste stesse lo considerano un giornalismo di serie B al quale destinare i giornalisti precari formando una catena di montaggio che ha come obiettivo la quantità piuttosto che la qualità. Il problema è che il giornalismo tradizionale continua a perdere colpi. Dal 1997 al 2007 il cartaceo, sia negli Stati Uniti che in Europa, ha perso sistematicamente il 2% di entrate annue e nel 2008 ha sfiorato un rosso in doppia cifra. Tutto questo avviene mentre i guadagni delle edizioni online crescono molto più lentamente di quanto non facciano le perdite delle rispettive edizioni tradizionali, che tuttora le mantengono economicamente.
Il terzo e ultimo capitolo è dedicato al “giornalismo partecipativo” propriamente detto, ovvero alle forme alternative di informazione che si sono sviluppate da ben prima che vi sbarcassero i media tradizionali. Internet si configura come un “medium personale di comunicazione di massa”, dove la comunicazione tra le persone può avvenire da molti a molti. Può prosperare così un giornalismo d’idee e di principi, di qualità eterogenea ma con punte di eccellenza, associativo, cooperativo o anche personale. Negli ultimi anni milioni di singoli, associazioni, ma anche imprese hanno creato progetti editoriali in cui il concetto di broadcast, il grande medium che in maniera verticale comunica a molti spettatori passivi, è sostituito o almeno affiancato da molti media orizzontali, una nebulosa informativa sulla quale gli utenti possano costruire la propria agenda informativa.
L’informazione nasce come privilegio di pochi. Per secoli erano i re, i papi, gli imperatori ad assegnare il “privilegio di stampa”, che fu accordato per la prima volta a Venezia nel 1486, appena 30 anni dopo l’invenzione di Johann Gutenberg. Nella società di massa il privilegio prende la forma della concentrazione editoriale, del latifondismo dell’informazione. Nel Novecento, anche in condizioni di libertà e democrazia, non si poteva fare a meno di ingentissime risorse e di un rapporto sinergico con il potere per poter dire la propria. Oggi i “media personali di comunicazione di massa” rappresentano un’alternativa a tale logica accentratrice, ridefinendo in senso antimonopolista una comunicazione bidimensionale che interessa miliardi di individui.
Gennaro Carotenuto, Giornalismo partecipativo. Storia critica dell’informazione al tempo di Internet, Modena, Nuovi Mondi, 2009, pp. 351. ISBN: 9788889091715, Acquista subito al prezzo speciale di 10.20 Euro. |
Proprio questa vocazione antimonopolistica, in contrapposizione con il modello di concentrazione editoriale dei media tradizionali, ridefinisce e allarga il campo giornalistico in senso partecipativo. Molti soggetti sono in grado di fare informazione giornalistica più o meno di qualità e, per il solo fatto di esistere, rimodulano gli equilibri. Ciò non potrebbe avvenire se ci fosse un unico nuovo broadcast “buono”, non condizionato dal potere. Il giornalismo partecipativo non va cercato in un singolo sito, in un blog, in un portale, in una webtv o una webradio. Va cercato nella nebulosa informativa costituita da migliaia di media, ognuno dei quali dotato della propria specificità, del proprio agenda setting, il proprio modo di scegliere e raccontare le notizie. Tutti questi media, muovendosi su nuove “convergenze parallele”, ognuno per la sua strada, si intersecano riconoscendosi vicendevolmente autorità e credibilità attraverso i link. Creano così una biodiversità informativa che pone i presupposti per una nuova fase della storia del giornalismo, basata sul pluralismo e sulla possibilità di scegliere. Alla massima concentrazione editoriale, il nucleo di una dozzina di grandi gruppi mediatici che hanno le mani sull’informazione mondiale, fa da contraltare la coda della cometa, la nebulosa partecipativa dell’informazione. Il punto non è la “forma dell’acqua” del giornalismo partecipativo, o la sua collocazione politica, ma l’evoluzione, registrata fin dall’inizio e per trent’anni, di un sempre imperfetto ma sempre più ampio pluralismo, di idee, temi, sensibilità che solo la frammentazione della concentrazione editoriale impostasi nel Novecento può garantire. Il punto è che a partire dalla rivoluzione informatica si è aperto uno spazio importante per un nuovo giornalismo non generalista ma tematico, spesso orientato dalla passione civile (passiondriven journalism vs. market-driven journalism), ma non per questo meno autorevole e competente (anzi), che contrappone l’approfondimento e la condivisione della conoscenza alla banalizzazione della complessità imposta dai media commerciali.
Il giornalismo partecipativo non passa necessariamente da Internet. Fanno giornalismo partecipativo i piccoli editori che lavorano in comunità montane dagli Appennini alle Ande, televisioni diversissime come Arcoiris TV o Current, radio con esperienza ultratrentennale come il network di Radio Popolare, disponibile a una concezione non proprietaria del medium ma di servizio al territorio e alle voci altre, un caffè letterario in un quartiere difficile di una grande città, il circuito delle radio universitarie o delle radio comunitarie, come dimostra in particolare l’esperienza latinoamericana di centinaia di microscopiche radio che spesso non possiedono neanche un computer ma che con la loro voce, sommata a innumerevoli altre, contribuiscono a scalfire il monolitico latifondo dei grandi media commerciali.
Quello che chiamiamo “giornalismo partecipativo” non è di per sé migliore o peggiore del giornalismo tradizionale o mainstream, ma ne rappresenta oramai l’ineludibile controcanto. Per mostrarsi online con un blog, un sito, una webradio, una webtv o altro bastano pochi o pochissimi mezzi. Lo si può fare con professionalità ineccepibile o in maniera raffazzonata. In un contesto nel quale i media commerciali possono far sentire la loro voce solo attraverso forti concentrazioni editoriali, enormi investimenti e rapporti indistruttibili con gli sponsor economici e politici, i media partecipativi abbassano significativamente l’assicella, riducendo gli standard di gigantismo imposti dal libero mercato, che garantiscono solo a pochi soggetti la libertà di espressione per imbavagliare tutti gli altri. È questa la chiave interpretativa che propongo in questo saggio sulla storia dell’informazione nell’ultimo quarto del XX secolo e all’inizio del XXI: oggi libertà di stampa vuol dire biodiversità informativa, che è l’opposto di concentrazione editoriale e omologazione del messaggio.
Gennaro Carotenuto, Giornalismo partecipativo. Storia critica dell’informazione al tempo di Internet, Modena, Nuovi Mondi, 2009, pp. 351. ISBN: 9788889091715, Acquista subito al prezzo speciale di 10.20 Euro. |