CARACAS – La capitale del Venezuela deve piacerti piano piano. All’inizio prevale lo choc; è una città difficile e neanche è detto che succeda mai che ti piaccia. Sono oramai molte volte che la visito, per periodi più o meno brevi e solo adesso comincio a sentirla meno ostica e a provare affetto. Anche se i contrasti intollerabili degli anni ’90 vanno lentamente riducendosi, continuano a choccare. E a volte ad impaurire.
Ma è solo una scorza, sotto la quale pulsa un’umanità meravigliosa. L’opposizione sta chiusa nei quartieri per ricchi e il resto della popolazione si ingegna per cambiare il destino collettivo di questo paese. Non c’è una sceneggiatura già scritta, ma la voglia di partecipare, di interrogarsi, di mettersi in gioco, è già di per se stessa una rivoluzione. A volte succede in maniera cosciente, a volte ingenua, ma quasi sempre traspare la buona fede di chi non vuol tornare indietro a quando il Venezuela era di pochi.
Uno dei motivi del mio attuale soggiorno è tenere un Laboratorio di Storia Orale. In pochissimi giorni (l’organizzazione, pur ammirevole è stata precipitosa) si sono iscritti a frotte. Sono oltre sessanta ma soprattutto, ho di fronte a me la classe meno omogenea che mi sia mai toccata nella vita. Dai 16 ai 70 anni, uomini e donne, impiegati, studenti, docenti, ma anche operai, artisti, moltissimi afrodiscendenti, con livelli culturali diversissimi, stimoli diversi, progetti diversi, aspettative diverse. Ognuno opina, dice la sua, si scontra, su come la Storia Orale possa essere uno strumento di restituzione di voce e di liberazione. Le lezioni -di 4 ore- sono dei lunghi eventi nei quali sto imparando più di quello che posso dare.
Ieri, magicamente, a partire da una domanda di una partecipante, si è composto con il contributo di tutti un progetto affascinante sulla salute e la malattia, prima che il popolo bolivariano decidesse che questa fosse un diritto. Curanderas, medici tradizionali indigeni e africani, medici allopatici con le loro miserie e la loro generosità. Storie di ospedali clandestini nelle case di guaritori, storie di malati e di familiari di malati. Sarà bellissimo seguirle.
Guardo la mia classe, così diversa e diversificata, mi metto io stesso in gioco, mi stimolano e mi mettono in difficoltà. Li guardo ed esprimo un desiderio: vorrei che le mie classi italiane avessero la metà degli stimoli che hanno loro. Mi piace pensare che nessuno possa fermarli, nessuno possa zittirli. Dopo la lezione vado in giro per le strade, e sento sempre più vicina Caracas. Mi soffermo come sempre ai chioschi dei giornalai. I titoli dei giornali, quasi tutti dell’opposizione, fanno bella mostra: titoli forti, truculenti, che in genere puntano sulla microcriminalità. “Tal cual”, il tabloid quotidiano diretto da Teodoro Petkoff, per l’ennesima volta utilizza l’elemento grafico della svastica nazista per attaccare il governo. Nessuno ci fa caso più di tanto.
Vado in Hotel e accendo la tv. Alla CNN, in studio, in diretta da Miami, sta parlando proprio Teodoro Petkoff: “Il Venezuela bolivariano è un paese totalitario, è un paese dove non c’è libertà di stampa, è un paese dove si parla di socialismo del XXI secolo ma dove in realtà si sta correndo verso il socialismo del XX secolo. Siamo sempre più simili all’Unione Sovietica al tempo di Stalin”. Cambio canale. I canali dell’opposizione, in piena libertà, lanciano lo stesso messaggio di Petkoff: totalitarismo, mancanza di libertà di espressione. Sono solo meno raffinati. Spengo. Torno in strada. La svastica con la quale Teodoro Petkoff stigmatizza il governo, mi fa ancora l’occhiolino liberamente esposta dal chiosco del giornalaio all’entrata del Metro. Nessuno squadraccia chavista è passata a zittirla.
Penso alla mia classe, nella bella casa coloniale del Ministero della Cultura che ospita il mio corso, e alla voglia che hanno di mettere tutto in discussione; me compreso ovviamente. Continuo a passeggiare in questo caos tutt’altro che sotto controllo e penso a Teodoro, questo brillante intellettuale di sinistra, conosciuto in Italia per essere l’unica voce intervistata (continuamente) sul Venezuela. Per quotidiani come La Repubblica, per Omero Ciai, è l’unica voce, l’unico numero di telefono caraqueño che Ciai ha in agenda (e critica Gianni Minà che di numeri in agenda ne ha troppi). Penso a Teodoro, e al suo stracciarsi le vesti dai microfoni di CNN, al suo utilizzare la categoria di “totalitarismo”, al suo paragonare senza pudore il Venezuela bolivariano all’Unione Sovietica di Stalin. Penso a quanto autorevole è Teodoro e quanto le sue continue interviste a La Repubblica aiutino a comporre il punto di vista dei progressisti italiani sul Venezuela. Di fronte all’assoluta normalità di Caracas, penso che Teodoro si presti al gioco di CNN. Ciai si presti al gioco di Teodoro. La Repubblica si presti al gioco di CNN. Che tutti mentono sapendo di mentire, ma continuano a perseguire lo stesso disegno: calunniate, calunniate, qualcosa resterà.
E lo immagino, Teodoro. Lo immagino partire stamane stesso dalla sua bella casa in un quartiere alto borghese di Caracas, prendere il primo volo per Miami, sedersi in un posto di prima classe, pagato da CNN, arrivare a Miami, andare in studio e ripetere in mondovisione il suo discorsetto sul totalitarismo, sull’Unione Sovietica, sulla censura e sulla mancanza di libertà d’espressione in Venezuela, sull’esproprio proletario del canale RCTV traferito sul cavo e sulla necessità di salvare il Venezuela dal comunismo.
Poi lo immagino farsi riaccompagnare all’aeroporto e tornare a Caracas comodamente, appena in tempo per chiudere il suo giornale, così coraggioso da mettere un’altra svastichina in prima pagina o da disegnare i baffetti di Hitler sulla foto di Chávez e da strillare quotidianamente davanti al mondo che in Venezuela proprio non c’è libertà di espressione.