Rafael Correa ha stravinto le elezioni in Ecuador conquistando più del doppio dei voti del suo più immediato oppositore.
È il vantaggio più grande nel dopoguerra e per la prima volta dal ritorno della democrazia nel 1976 in uno dei paesi più instabili al mondo non ci sarà ballottaggio.
Così Quito festeggia la permanenza di un governo integrazionista e con un marcato programma di redistribuzione sociale, progressista, antimperialista, di sinistra laddove questa parola continua ad avere piena vigenza e significato nella costruzione di un Ecuador del futuro che Correa chiama “rivoluzione della cittadinanza”.
Sulla portata del trionfo i commenti non possono non essere unanimi: dall’Università Andina, il politologo Hernán Reyes si sofferma sull’adesione chiara sia alla gestione del governo sia al programma. Dalla Facoltà Latinoamericana di Scienze Sociali il politologo Simón Pachano, intervistato dalla BBC, si sofferma sulle divisioni dell’opposizione e sulla maggioranza assoluta della coalizione “Alleanza paese” di Correa: “si sta consolidando un vero e proprio processo di egemonia”. È un processo di egemonia che si sposta verso le classi subalterne e che rompe per la prima volta col controllo del paese da parte di un nucleo ristrettissimo di famiglie patrizie che lo hanno sempre dominato. Ma è un processo di egemonia che deve ancora essere confermato in molti modi. Sbaragliata l’opposizione della destra di sempre all’interno della coalizione “Alleanza Paese” ritroviamo una sinistra con alla testa lo stesso presidente Correa che chiama ad “approfondire il cambiamento” ed una destra interna che punta i piedi, come ha confermato a Latinoamerica Kintto Lucas, corrispondente da Quito del settimanale uruguayano Brecha.
Tale battaglia tra chi vuole davvero una trasformazione profonda e chi invece è solo salito sul carro del vincitore si combatterà soprattutto in sede di potere legislativo nei prossimi mesi quando la maggioranza sarà chiamata a decidere su questioni chiave come la sicurezza alimentare del paese e forse sulla de-dollarizzazione, la polpetta più avvelenata lasciata dal neoliberismo all’Ecuador. È solo uno dei problemi con i quali Correa dovrà misurarsi nel corso dell’anno. Ha dato centralità agli emigrati, che lo hanno ricambiato con un massiccio apporto di voti, ma adesso proprio questi, messi in difficoltà dalla crisi economica, inviano meno rimesse in un momento nel quale il prezzo del petrolio è in ribasso, approfondendo la crisi economica.
Finora però Rafael Correa, questo democristiano di sinistra che non ha paura di farsi accostare a Hugo Chávez, Evo Morales e perfino Fidel Castro nell’onda lunga dell’integrazione latinoamericana e che parla di rivoluzione socialista, ha saputo prendere sempre il toro per le corna, riuscendo a raggiungere una storica riforma costituzionale ed inanellando una dopo l’altra già cinque vittorie elettorali consecutive con maggioranza crescente.
Lo ha fatto con un limpido discorso antimperialista, come quando si è opposto fieramente al Fondo Monetario Internazionale dichiarando la moratoria sul debito estero ingiusto e illegale. Lo ha fatto con programmi redistributivi dove gli ultimi vengono al primo posto e dove la salute e l’educazione sono priorità.
E in questo contesto sono troppi i paesi, anche nella vecchia Europa che si considera progredita e civilizzata, che dovrebbero guardare con invidia ai principi della “rivoluzione della cittadinanza” di Correa, capace di tagliare le gambe e delegittimare definitivamente un sistema partitocratico mafioso, difendere con dignità la sovranità dell’Ecuador dall’aggressione militare dell’alleato di George Bush, il colombiano Álvaro Uribe, mettere fine alla lunga notte neoliberale e coinvolgere il paese in un progetto di cittadinanza solidale, democratica e inclusiva.
Non era e non è facile per l’Ecuador. Il sistema neoliberale voluto e controllato dalle destre, a loro volta controllate dal nord, aveva spogliato il paese della propria sovranità, perfino quella monetaria, e obbligato milioni di ecuadoriani all’emigrazione. È il pieno rifiuto di quel modello fallimentare a generare un progetto di cambiamento vero, non di facciata. I prossimi quattro anni saranno decisivi.