Sul dibattito su Cuba, è sorprendente come sia difficile per molti non prendere partito in maniera estrema rispetto a Cuba. L’esperienza della rivoluzione cubana è così articolata e così intimamente legata alla storia del continente degli ultimi cinquant’anni che non può esservene disgiunta. Ebbene, chi scrive esprime, rispetto alla rivoluzione cubana, un giudizio “articolatamente positivo”. Vale a dire che ne vede perfettamente le ombre -e se d’uopo ne scrive- ma non può fare finta, come fanno in troppi che sanno stare in società, che non ci siano anche le luci. Tra queste il fatto che Cuba negli ultimi 17 anni sia uscita dalla schiavitù della monocoltura, problema che non aveva neanche iniziato a risolvere al tempo del rapporto privilegiato con l’Unione Sovietica.
E’ utile dibattere su Cuba con chi ne ha un’opinione “articolatamente negativa”, ovvero che considera che la mancanza di libertà formali pesi sulla bilancia più di alcune non negabili conquiste. Sono problemi ai quali non si può essere insensibili. Il problema fondamentale in quest’ambito è quello su quale tipo di opportunità sociali vengono privilegiate. Cuba non ha risolto il problema, tipico dei regimi socialisti, di non sapere offrire abbastanza opportunità/libertà ai giovani adulti, che pure ha opportunamente preparato. Ma Cuba ha pur sempre offerto ai propri cittadini una base di partenza di diritti che il capitalismo non sa e non vuole garantire.
Le società affluenti, sotto il fondamentalismo neoliberale, si stanno rapidamente trasformando da “società dei due terzi” (due terzi inclusi, un terzo esclusi) in “società del terzo”, dove solo un terzo della popolazione vive bene e gli altri due terzi si arrabatta nella precarietà e nell’incertezza. Moltissimi tra gli esclusi vengono scartati già alla nascita, o perché moriranno di mortalità infantile, o perché per classe sociale non peseranno sullo stato, studieranno poco, lavoreranno poco e male, non arriveranno mai alla pensione. L’esclusione in entrata facilita moltissimo le cose in una società capitalista.
L’utopia cubana è stata quella di non escludere nessuno. Ma se nessuno è escluso tutti pesano sulla società. Cuba, con i suoi dati su mortalità infantile, salute, scolarità ha vinto una grande battaglia. L’ha vinta al prezzo di perdere spesso la battaglia della soddisfazione personale da adulti, delle opportunità/libertà da offrire ai giovani adulti, dell’impossibilità di soddisfare per tutti desideri di consumo che non sono necessariamente sinonimi di consumismo.
Ma tra il 46% di bambini denutriti in Guatemala e il virtuale zero di Cuba, come è possibile non valutare positivamente l’opportunità alla nascita che il socialismo cubano è riuscito a garantire ai propri cittadini e che il capitalismo non si preoccupa di dare? Allo stesso modo, di fronte a quell’8.7% di PIL speso in educazione, che secondo dati del CEPAL è il dato più alto del continente e forse del mondo, come si può avere una valutazione SOLO negativa?
E’ interessante sempre dialogare con chi è in grado di articolare il discorso sull’isola, molto di più di quanto sia interessante dialogarne con chi ha una visione “acriticamente positiva” del processo cubano. E’ invece difficile dialogare con chi ha un’opinione “negativa a prescindere” fino a dare credito perfino alle veline di Washington. Con chi parla di “gerontocrazia” poi è inutile spendere un secondo, giacché o non sa neanche dov’è Cuba o è davvero in malafede. Gerontocrazia è l’Italia, non Cuba. Si scandalizzano degli 80 anni di Fidel ma Napolitano ne ha 81 e Berlusconi finirà la legislatura con 74 anni. Con la differenza che a Cuba la metà della classe dirigente, ministri… ha meno di 40 anni, e da noi a 40 anni quelli che hanno le capacità per essere classe dirigente spesso fanno ancora i pony express. Sarà democratico così, ma è uno spreco di risorse umane almeno quanto è frustrante quando a Cuba si vede un laureato fare l’ascensorista.
Chi scrive ha conosciuto posti, è entrato in case, dove sotto il fondamentalismo neoliberale sono morti bambini di fame, a Bella Unión, a Tucumán… ho passato mesi e mesi della mia vita in posti dove di fatto non esisteva circolante, come nel pauperrimo Maranhão in Brasile, dove i bambini vanno a caccia di coccodrilli per fame e… qualche volta vince la fame dei coccodrilli. Sarebbe bene organizzare gite scolastiche a far vedere come funziona il capitalismo reale in America Latina ed inserirlo come elemento di valutazione per giudicare la resistenza dei cubani.
Cuba, in termini materiali, ha poco o nulla di buono da offrire ad uno svedese o a un belga e alla maggioranza o quasi totalità degli italiani. Ma Cuba è un paradiso terrestre per chi è nato a Renca, a Santiago, o al Cerro di Montevideo o alla Rocinha di Río de Janeiro. Al Maciel, lo storico ospedale pubblico della città vecchia di Montevideo, ho assistito una persona ricoverata in condizioni infraumane perché aveva avuto la sfortuna di ammalarsi nell’unico mese della sua vita nella quale non aveva potuto pagare i 100 dollari di “sociedad medica”, l’assistenza medica privata di fatto obbligatoria. Aveva pagato ininterrottamente per 22 anni, ma quel solo sgarro era bastato per spedirla all’inferno. Non aveva diritto a nulla. A Cuba si vivevano i giorni più duri del periodo speciale, e i nostri giornali pontificavano sul fatto che negli ospedali mancassero medicine e filo per suturare. Ricordo ancora la dottoressa del Maciel che mi mostrò gli scaffali degli ambulatori completamente vuoti. In piena democrazia liberale non c’erano medicine, anestetici, né fili di sutura al Maciel. Esattamente come a Cuba. Ma per denunciare Fidel Castro si riempivano le pagine mentre per denunciare Julio María Sanguinetti non si sprecava neanche una riga. Adesso, dieci anni dopo, Cuba esporta medicine, mentre al Maciel quegli scaffali continuano a restare vuoti e chi non ha i soldi per pagare continua a morire. Quale dei due sistemi è ingessato? Quale è più vitale?
Un altro argomento degli “anticubani a prescindere” che non convince è quello per il quale sarebbe razzista pensare che i cubani non debbano beneficiare di diritti dei quali beneficiano gli europei. Avrebbero ragione se si scandalizzassero della stessa maniera per la ben più estesa mancanza di diritti di chi nasce in una Villa Miseria del Gran Buenos Aires. L’Avana, come Catia di Caracas o il Callao di Lima non è Stoccolma. Ma tra l’essere un lumpen a Bogotá e l’essere un cittadino all’Avana cosa scegliereste? Rispetto a questa elementare considerazione vengono in mente quelli che credono nella reincarnazione. Tutti credono di essere stati in un’altra vita principesse o cavalieri erranti. Se ne incontrasse mai uno che in un’altra vita è stato un minatore, uno schiavo, un bracciante! Fuori dal faceto: il vero dramma dell’America Latina è stato la cronica incapacità di trasformare la democrazia formale in democrazia sostanziale.
Molti anticubani a prescindere (non tutti) considerano la violenza endemica -sociale, politica, economica- imposta dal capitalismo come parte dell’ordine naturale delle cose e la considerano di per se stessa se non desiderabile almeno accettabile. Normale. Al contrario considerano intollerabile la situazione cubana in quanto rottura di un ordine -quello capitalista e liberaldemocratico- che si vorrebbe di natura. Quando Pablo canta “no vivo en una sociedad perfecta” probabilmente risponde proprio a questa obiezione. A Cuba si esige che sia perfetta perché ha osato sfidare l’ordine naturale delle cose, mentre la società capitalista può essere così imperfetta perché risponde a un ordine naturale. Mesi fa un’informativa dei servizi segreti britannici -non chiedetemi di cercarla, piuttosto non credetemi- affermava che Cuba è il quinto paese meno corrotto al mondo. Bell’elemento di dibattito! Certo che Cuba non è perfetta, ma i politici italiani -Bertinotti in primo luogo- così scandalizzati dal “fallimento” della Rivoluzione cubana, appaiono meno scandalizzati dalla bancarotta etica della Repubblica italiana che è sotto gli occhi di tutti.
Glenda Alfonso Castillo, (ne scrissi qui), medico di Barrio Adentro in Venezuela, mi raccontava dell’esperienza in Guatemala dove è rimasta per mesi con i superstiti dell’uragano dell’anno scorso che ha fatto decine di migliaia di morti nel silenzio dei media mondiali che guardavano solo a Nuova Orleans. Mi raccontava che i suoi assistiti erano tutti analfabeti e che perfino i latifondisti del posto non avevano più della seconda o terza elementare. Confrontava tale esperienza con la propria, discendente di schiavi, nipote di tagliatori di canna, sua madre prima e oggi lei e i suoi fratelli, oggi sua figlia, hanno avuto dalla Rivoluzione la possibilità di studiare e laurearsi ed avere un avvenire incomparabilmente migliore che se la Rivoluzione non ci fosse stata. La difficoltà materiale di vivere a Cuba è grande e lei ne è cosciente. Ma sa che non è con il tenore di vita di una dottoressa Glenda di Stoccolma con la quale deve confrontare il proprio tenore di vita. Deve confrontare il suo tenore di vita, quello della discendente di schiavi, tra quello che avrebbe avuto senza la Rivoluzione e quello che ha con la Rivoluzione. E non ha dubbi.