pubblico l’editoriale di Vauro che lascia il Manifesto per lavorare a tempo pieno per Emergency. Credo sia una scelta che debba far riflettere ognuno di noi.
Sono venti anni che ogni giorno sul manifesto esce la mia vignetta. Venti anni sono tanti, non abbastanza per fare bilanci, però mi sento di dire che per me sono stati venti anni di libertà. Anche della libertà di non restare sempre chiuso nei margini del quadratino della vignetta, ma di poter andare ogni tanto oltre, in Palestina, in Afghanistan, in Iraq per vivere e tentare di raccontare la guerra disegnando e scrivendo. E’ stato ed è in queste esperienze, che l’orrore della guerra mi si è appiccicato addosso. Le immagini tremende dei corpi dei bambini dilaniati dalle mine o dalla cluster bomb, i suoni delle grida di dolore o dei silenzi di annichilimento, la polvere asfissiante delle macerie mi si sono, una sull’altra, sedimentate nell’anima, rendendomi insopportabile una «normalità» che perpetra, accetta, o anche solo tollera che questo orrore non si fermi anzi si espanda, si allarghi sino ad occupare, tra silenzi, censure, ipocrisie e complicità, gran parte del panorama delle esistenze dei milioni di esseri umani che lo subiscono e, in modo velenoso, anche quello di chi si crede «lontano» dai luoghi della guerra ma la fa propria tramite l’indifferenza.
Nei luoghi della guerra ho conosciuto Emergency, Gino Strada, Marco Garatti, e tante altre persone «lontane» dalla indifferenza. Il loro lavoro ostinato e intelligente dalla parte delle vittime non rappresenta solo una speranza per queste ultime, ma anche per chi, come me, rischiava o rischia di farsi una immagine inumana dell’umanità condannandosi ad un pessimismo sterile. Con Emergency è nato e si è consolidato in questi anni, in tante esprienze drammatiche ma anche belle un rapporto profondo di amicizia e di condivisione dei valori del diritto umano a partire da quello alla vita che la guerra nega brutalmente. Mi sono fermamente convinto che la lotta per la messa al bando della guerra è oggi la priorità assoluta. Dovrebbe essere la questione imprescindibile e discriminante sia nel mondo della politica che in quello della cultura, ma purtroppo non lo è. Se comincia a esserlo nella società civile, nel sentire delle persone, è anche grazie al lavoro di pratica dei diritti e di testionianza diretta che organizzazioni come Emergency svolgono quotidianamente. Quando Emergency mi ha chiesto di lavorare non più come «embedded» ma dentro l’organizzazione per occuparmi della informazione e della comunicazione ho accettato con timore ed entusiasmo. Timore di non essere, per capacità, per pigrizia, all’altezza del ruolo. Non sono un chirurgo e nemmeno un infermiere, ho invidiato tante volte chi con le mani incide, cambia realmente il destino di una delle tante «vittime collaterali» della guerra riuscendo a restituirgli a volte vita e dignità. Entusiasmo perché la motivazione che sento per accettare questo lavoro è forte, di più, è urgente. L’urgenza di fare qualcosa, anche poco, ma qualcosa per fermare la mostruosità della guerra, fosse anche solo dare una rinfrescata ai disegni che feci sulle pareti dei padiglioni per i bambini dell’ospedale di Emergency a Kabul. Sono passati ormai sei anni da quando li dipinsi, era la Kabul dei talebani, della guerra contro i mujaheddin di Massoud, eppoi l’11 settembre e su quella guerra un’altra guerra, stavolta contro il terrorismo, per la democrazia, ma quei padiglioni sono sempre pieni di bambini feriti e mutilati.Vorrei che i lettori sapessero che è per l’impegno in questo mio nuovo lavoro con Emergency se domani e per un po’ di tempo non troveranno la vignetta sul giornale, e, per chi mai se ne dispiacesse, che la vignetta tornerà a esserci anche se non tutti i giorni perché collaborerò ancora con il manifesto e continuerò a fare vignette anche per chi spera il contrario. Agli amici e compagni del manifesto, a Valentino, a Gabriele, Mariuccia, Loris, Agostino e tanti altri chiedo solo di capire che è quella stessa libertà che ci ha tenuto assieme per tanti anni che mi consente ora di prendere serenamente un’altra strada, non tanto lontana né troppo diversa da quella percorsa insieme fino a oggi, perciò sono sicuro che ci ri-incontreremo spesso.