L’editoriale di Nigrizia di novembre
In Africa gira una storiella per spiegare alla gente, a digiuno di economia, la frana finanziaria e il crollo delle Borse che hanno travolto il globo.
«Un giorno, uno sconosciuto arriva in un villaggio e annuncia agli abitanti che è pronto a comperare scimmie a 10 dollari l’una.
Subito, quei paesani vanno in foresta e catturano scimmie a centinaia, a migliaia addirittura.
Poco a poco, la popolazione dei primati si assottiglia e i cacciatori devono ridurre il ritmo.
Lo sconosciuto annuncia che, d’ora in poi, pagherà 15 dollari la scimmia. I paesani raddoppiano lo zelo, e così, ben presto, non si trova più una sola scimmia nella foresta. Allora, lo sconosciuto offre prima 20 e poi 50 dollari per animale, avvertendo, però, che deve assentarsi. Sarà il suo aiutante a comperare le loro prede. Questi riunisce la gente e indica le gabbie con le migliaia di scimmie che il padrone ha comperato. “Se le volete – dice – ve le cedo a 35 dollari l’una. Così, quando il mio padrone tornerà, potrete rivendergliele a 50”. Accecati dalla prospettiva dell’arricchimento facile, i paesani vendono i loro beni per riscattare le scimmie. Incassato il malloppo, l’assistente sparisce nella notte. Né lui né il padrone si vedranno più. Nel villaggio, solo scimmie che corrono all’impazzata». Benvenuti nel mondo della Borsa!
Altrettanto amaro è il risveglio per tutti noi, abitanti del villaggio globale, in attesa della resa dei conti. Con la cintura stretta. E con lo sguardo rivolto al crollo rapido dell’unico fondamentalismo accettato come legge divina anche dal laico più sfrenato: il fondamentalismo mercatista. Anche la società della competitività fondata sul consumo e sull’egoismo economico ha esaurito il proprio serbatoio. La finzione è stata smascherata: il libero mercato non è (stato) sinonimo di concorrenza leale. Ha semplicemente consentito – rubando un’espressione a Joyce – alla libera volpe di muoversi in un libero pollaio. E le piume abbondano, come le scimmie della storiella.
Ci ritroviamo, così, tutti più poveri. Ma c’è sempre qualcuno più povero degli altri. Perché a pagare le conseguenze della rincorsa statale al salvataggio del sistema finanziario e speculativo globale sono soprattutto i paesi del sud del mondo e gli strati sociali più deboli del mondo occidentale. Con contraddizioni inaggirabili.
Per anni gli Stati Uniti e le grandi agenzie economiche internazionali (Fondo monetario internazionale e Banca mondiale) hanno imposto il loro modello liberista alle economie africane. Hanno preso il megafono e urlato che il libero mercato era l’unico sistema in grado di migliorare le condizioni di vita nei paesi più poveri. Hanno condizionato gli aiuti ai cosiddetti “aggiustamenti strutturali”: meno stato e più liberalizzazioni; altrimenti, niente fondi.
Poi, cos’è accaduto? Che la dottrina è fallita anche in Occidente. E Washington & Co. non si sono fatti scrupoli a nazionalizzare le loro banche, la loro economia, facendo ricadere le perdite sui cittadini inconsapevoli. E il rigore liberista praticato in Africa, spesso con conseguenze disastrose? Capitolo chiuso.
Ma non può essere chiuso il capitolo relativo agli aiuti alla povertà. Perché i miliardi di dollari o di euro che vengono oggi impiegati per tamponare la crisi finanziaria sono sempre stati negati alla lotta alla povertà. Le Monde cita le stime delle ong, secondo cui per sfamare i 923 milioni di esseri umani denutriti oggi nel mondo basterebbero 30 miliardi di dollari l’anno. Meno del 5% della cifra prevista dal primo piano del ministro delle finanze americano, Henry Paulson, per salvare le sue banche (700 miliardi di dollari).
Così, oggi, sono a rischio gli stessi Obiettivi del Millennio. Lo 0,70% del Pil di ciascuna nazione da destinare, entro il 2015, agli aiuti ai paesi in via di sviluppo si profila come mera utopia.
A questa ipotesi se ne affianca un’altra, altrettanto pericolosa: il disimpegno “pubblico” nella lotta alla povertà. Governi e comunità internazionale si ripiegano su sé stessi, relegando solo al privato l’impegno in questa direzione. Come ci ricorda il documento finale degli Stati generali della solidarietà e della cooperazione internazionale, riuniti a Roma a metà ottobre, «ciò vorrebbe dire sancire definitivamente l’inesistenza di una responsabilità pubblica dei paesi ricchi verso quelli impoveriti».
È evidente che pompare risorse pubbliche per lanciare il salvagente al sistema finanziario vuol dire anche togliere risorse al welfare e alle politiche sociali di ogni paese, con l’emersione inevitabile di nuove forme di povertà e di emarginazione.
Gli economisti ci hanno detto che allargare la sfera d’intervento dello stato è l’unico mezzo per scongiurare la catastrofe. Ma il sistema è già entrato nel tunnel dell’assurdo: chi ha speculato e si è arricchito, viene garantito; chi ha subito il sistema, ritorna a essere bastonato.