Dunque avevano sbagliato tutti. E quando si sbaglia sui dogmi di fede c’è poco da scherzare. Per 40 anni, da quando nel dicembre del 1965 Papa Paolo VI chiuse il Concilio Vaticano II, i fedeli, i teologi, i padri della chiesa, avevano interpretato in maniera erronea il Concilio stesso. Si erano perfino divisi tra conservatori e progressisti per una disputa che non aveva ragion d’essere. Il concilio, come ha affermato ieri papa Ratzinger nel discorso alla Curia romana, non fu rottura, non fu cambiamento. Al massimo, rifugiandosi in calcio d’angolo, fu “riforma”.
E’ interessante che un sacerdote tedesco scelga proprio il termina “riforma” con tutto un ventaglio di sinonimi disponibili. Non può essere un caso. Ma soprattutto -passando al secolo- è interessante che Joseph Ratzinger scelga un termine che se per la chiesa ha avuto un’importanza lacerante, nella storia degli ultimi 40 anni, quelli che ci separano dal Vaticano II, ha profondamente traslato il suo significato. 40 anni fa per ‘riforma’ si intendeva un cambiamento radicale, oggi si intende la conservazione sostanziale dell’esistente e non è difficile capire che Ratzinger utilizza il sostantivo nell’accezione del 2005.
In molti avevano notato la messa della sordina alle celebrazioni del quarantesimo della chiusura del Concilio, lo scorso 8 dicembre. Un chiaro ribassamento di rango di quello che universalmente è stato considerato un evento epocale. Tutto il pianeta, i cattolici e tutto quel mondo, ateo o credente, che guarda con attenzione alle cose della chiesa di Roma, aveva sempre interpretato il Concilio come un momento di svolta, di forte cambiamento dentro il cattolicesimo. E questo mondo si era diviso sull’opportunità di quel cambiamento.
Qualcuno lo aveva visto come una svolta positiva, qualcun’altro come un’abiura a 2000 anni di storia del cattolicesimo. Ma sul fatto che il Concilio fosse stato una svolta non vi erano dubbi. La chiesa di Roma subì anche un piccolo scisma -che con le categorie politologiche terrene potremmo definire da destra- intorno all’ultraconservatore francese Marcel Lefebvre che fu per questo scomunicato da Paolo VI.
Il Concilio rappresentò un momento di speranza e di apertura in un’epoca di apertura e di speranza nel mondo. Perfino la guerra fredda sembrava meno fredda -era il disgelo- in quegli anni, le bandiere della barbarie colonialista ammainavano e il futuro dell’umanità sembrava promettere pace.
Il Concilio Vaticano II fu un evento così trascendente per il mondo cattolico che donò perfino un italianismo dal significato incontrovertibile: “aggiornamento”. Adesso con Ratzinger scopriamo che non ci fu nessun aggiornamento e quindi dovremmo riportare indietro anche i dizionari di molte lingue e perdere uno dei pochi italianismi che la nostra lingua ha donato al mondo negli ultimi decenni.
Infatti, quel termine in italiano, in molte lingue del mondo passò ad indicare un processo per stare al passo con i tempi come quello ‘per antonomasia’ compiuto dalla Chiesa Cattolica con il Concilio: attenzione privilegiata ai poveri, rinnovamento nella dottrina, riti celebrati nelle lingue nazionali, questi furono i caratteri più evidenti di quell’evento voluto da Giovanni XXIII e portato a termine dal suo successore Giovan Battista Montini. Ma vi furono anche cambiamenti meno evidenti ma perfino più epocali. La maggioranza dei padri conciliari veniva da due continenti: America e Africa, spostando per la prima volta gli equilibri della chiesa cattolica e privandola del carattere romano della curialità. Giovanni XXIII voleva ascoltare proprio quelle voci. La chiesa, che da almeno due secoli avversava ogni modernità, la chiesa “contro”, arroccata in Vaticano ad ammonire su di un mondo pieno di pericoli, offriva un progetto che era in qualche ottimista rispetto ai destini dell’umanità, di dialogo e di riscatto.
Per la prima volta la chiesa era “particolarmente dei poveri” come affermò ripetutamente Giovanni XXIII. E solo così la chiesa che era stata di Pio IX, del Sillabo e delle scomuniche, uscì dal Medioevo. Erano “i segni dei tempi” che Angelo Roncalli seppe vedere nella modernità, a partire dal ruolo dei soggetti fino allora non rappresentati nelle gerarchie vaticane, la donna protagonista in primo luogo, i poveri, i lavoratori. Alle gerarchie piacque poco ma il “segno dei tempi” prevalse.
Adesso l’ex-prefetto del Sant’Uffizio, oggi Papa Benedetto XVI offre la sua interpretazione, originale quanto autorevole. Il Concilio Vaticano II non rappresentò alcun tipo di cambiamento. Men che mai rottura. Non ci fu nessun rinnovamento perché la chiesa in quanto tale essendo nella verità non può modificarsi. Non lo dice ma è evidente che pensi che sbagliava Roncalli, sbagliava Montini e sbagliavano centinaia di milioni di cattolici che avevano visto proprio in quel rinnovamento motivi di speranza. Sbagliavano anche quelli che vi si opposero perché in realtà non era successo e non poteva succedere nulla.
E’ il “contagio conciliare” al quale il nuovo papa ha sempre guardato con orrore. Già nel 1984 esprimeva una totale chiusura rispetto allo spirito del Concilio: «Ci si aspettava una nuova unità cattolica – dice Ratzinger – e si è andati invece incontro a un dissenso… Ci si aspettava un nuovo entusiasmo e tanti sono finiti nello scoraggiamento e nella noia. Ci si aspettava un balzo in avanti e ci siamo invece trovati di fronte a un processo progressivo di decadenza che si è sviluppato in larga misura proprio sotto il segno di un richiamo al Concilio».
E’ perfino contraddittorio il postulato di Ratzinger. Se il Concilio ha portato decadenza, allora il cambiamento che nega ci fu. O forse fu solo l’idea che ci fu un cambiamento a portare decadenza. Benedetto XVI si posiziona con la chiarezza che gli è propria. Chi rischiava di creare una rottura all’interno della chiesa romana furono quelli che consideravano il Concilio come un cambiamento, che invece non ha mai avuto ragion d’essere e non c’è mai stato se non nella decadenza succitata.
Afferma testualmente Ratzinger che all’ermeneutica del concilio come discontinuità va opposta l’ermenutica del concilio come riforma dove la dottrina viene trasmessa pura ed integra la dottrina, senza attenuazioni o travisamenti. Esiste -è Ratzinger stesso che lo afferma- una giusta interpretazione del Concilio, ed una sbagliata e non importa se quella sbagliata è quella universalmente data -da favorevoli e contrari- per 40 anni. Ratzinger parla con una chiarezza meritoriamente evangelica (”Sia il vostro parlare sì sì, no no, il di più viene dal maligno” Matteo 5,37).
E’ l’ermeneutica della discontinuità ad aver causato confusione, “la discordia […], le chiacchiere incomprensibili, il rumore confuso dei clamori ininterrotti ha riempito ormai quasi tutta la Chiesa”. Il papa ovviamente è dalla parte di un’altra ermeneutica che è però anche un’interpretazione originale che vuole archiviare e seppellire per sempre le spoglie conciliari. Gli “slanci verso il nuovo” non furono il Concilio che fu innanzitutto continuismo “di un soggetto -la chiesa- che resta sempre lo stesso”. E lì chiosa in maniera perfino sovradimensionata: “il concilio non fu una costituente”, non lo poteva essere perché i padri conciliari non avevano e non avrebbero potuto avere un mandato in tal senso. Se il Concilio aveva rappresentato l’apertura del dibattito tra e sulla chiesa e la modernità, questo dibattito è stato definitivamente -per il momento- chiuso dal papa tedesco. La chiesa torna ad astrarsi dal tempo e volta lo sguardo sul tema dell’antropologia che era caro a Paolo VI. La chiesa di Ratzinger vuole essere non solo fuori dall’aborrita modernità ma anche fuori dal tempo.
Per chi scrive esiste la religione civile del tempo che scorre. Ed è chiaro che questa chiesa del papa tedesco che sceglie di sottrarsi al tempo e mettersi al di sopra del tempo, sceglie -desidera, spera- in realtà di tornare ad un altro tempo concreto. La chiesa dell’ex prefetto del Sant’uffizio, laddove seppellisce il Concilio Vaticano II sceglie il Concilio Vaticano I, laddove archivia la Rerum Novarum, non può non scegliere il Sillabo, laddove si allontana dal segno dei tempi di Giovanni XXIII si rifugia nei tempi di Pio IX. Lo scorso pontificato, che pure si definiva conservatore, ebbe il merito di riaprire il caso Galileo. Questo pontificato potrebbe rapidamente riaprire un altro caso, quello di Monsignor Lefebvre.
Il discorso di Joseph Ratzinger del 22 dicembre 2005 in versione integrale può essere letto qui