Non è solo calcio il senso della sentenza sulla partita rinviata il 4 ottobre tra Juventus e Napoli, che stabilisce in via definitiva che il Napoli abbia rispettato alla lettera le regole. Lo conferma lo strasabaudo Maurizio Crosetti, ancora indignatissimo, al quale Repubblica affida l’editoriale sulla vicenda, che insiste: “non era un fatto tecnico ma etico”. L’abile Crosetti scrive “tecnico” ma vuol dire “di diritto“. E quell’etico/morale, in assenza di prove, chiama in causa la narrazione nazionale sulla connaturata devianza, la furbizia, la slealtà, addebitata alla città di Napoli. Per l’enorme “produttore di senso” che è il mondo del calcio, il merito del caso, il diritto, resta secondario, rispetto alle sue basi “etiche”, etico/discriminatorie sulle quali doveva appoggiarsi la sentenza che condannava il Napoli.
La finzione che il caso Juventus-Napoli non fosse una questione di diritto, crollata con la sentenza di ieri, per oltre due mesi e due sentenze si è retta su due punti inscindibili: da una parte che il famoso “protocollo” fosse un patto di sangue per salvare il calcio (solo il calcio, non il turismo, la scuola, o qualunque altro settore messo in crisi dalla pandemia) e che questo fosse al di sopra delle leggi dello Stato. Dall’altra parte si supponeva che vi fosse un soggetto antropologicamente deviante, il napoletano per sua natura incline a violare le regole, alla furbizia, alla slealtà, del quale non fosse necessario dimostrare in punta di diritto la responsabilità perché colpevole per antonomasia.
Tale attribuzione di disvalori, funzionale qui a salvare l’istituzione calcio (vien voglia di scomodare l’ebreo Dreyfuss che doveva essere condannato per salvare l’onore dell’esercito francese), è a fondamento delle due sentenze spazzate via ieri. Il giudice di primo grado, Mastrandrea (più abile), non entra neanche nel merito. La domanda era: il Napoli poteva violare la disposizione della ASL, che metteva in quarantena tutta la squadra già sull’autobus per l’aeroporto, e in contrasto col protocollo? Lui dribbla, non si pronuncia, ma condanna. Le leggi dello Stato per Mastrandrea non esistono (oibò), elude il conflitto (presunto) tra due poteri, e si limita ad attaccare il cavallo dove vuole il padrone. Occhio: il padrone non è la Juventus, come pure sarebbe facile semplificare. Il padrone è la FIGC, il protocollo, la montagna di debiti che può far fallire un salumiere o un imprenditore, ma non il calcio.
La Juventus nella vicenda ha un ruolo marginale, ma la sua responsabilità è cruciale nel contribuire alla “costruzione di senso”. Nella sceneggiata dello Stadium è probabilmente trascinata da quel pugile suonato che è ormai Sky, che ha una visione esclusivamente quantitativa e mai qualitativa del prodotto che vende. Poi però c’è l’insistenza farisaica (etica di nuovo) sul rispetto delle regole, nonostante un atteggiamento solidale non fosse impercorribile, magari per giocare dopo un altro giro di tamponi. La Juventus, già turbata dal caso Suárez, si lascia così trascinare dalla necessità di mettersi dalla parte della ragione, facendosi così oggi carico di una sconfitta non sua. Un disastro, soprattutto per chi può contare sulla buona stampa di legioni di comunicatori benevoli.
Il giudice Sandulli (più volgare del predecessore) completa l’opera: suppone (solo suppone, quindi sostanzialmente inventa) accordi sotto banco tra ASL e Napoli e, per condannare senza prove, abbandona il linguaggio giuridico per quello da bar o da social. Non aveva altro su cui appoggiarsi. La giudice Flammini lo fa letteralmente a pezzi affermando: «Il protocollo è confusionario. La facoltà di autorizzare la trasferta era della Asl e la sua interlocuzione col Napoli fu doverosa. Il giudice sportivo in primo grado e soprattutto la Corte d’Appello Federale hanno fatto un passo più lungo della gamba».
Dunque quei toni sprezzanti, gratuiti, offensivi, con i quali il giudice Sandulli stigmatizzava una slealtà che addebita non solo alla SSCN ma al contesto napoletano, facendo strame della rispettabilità e della dignità di fior di professionisti, e che tanto avevano ferito l’intera città, contro la quale una parte d’Italia si sente in diritto di accanirsi, sono il cuore dell’intera vicenda. Decontestualizzando senza prova alcuna, questo è ormai comprovato e Cassazione dopo la sentenza di ieri, Sandulli sostiene che il Napoli avrebbe avuto un interesse di piccolo cabotaggio (triviale rispetto al maggior bene comune del protocollo) a non voler giocare e che la ASL di Napoli si sia prestata. Lo sostiene, lo sappiamo, senza prova alcuna; ma così si sarebbe fatta pari e patta con quei docenti dell’università perugina che sarebbero scattati sull’attenti alle richieste dell’operativo Paratici, e sui quali si potrebbe esprimere la magistratura ordinaria. Quella di Sandulli è stata dunque una condanna esclusivamente morale, cioè politica, che, di nuovo, si appoggiava non su fatti, ma sulla narrazione nazionale del napoletano deviante.
È bastato mettere il caso in mano a un giudice terzo, il CONI, che uscisse dal losco contubernio della FIGC, perché tutta la costruzione, dallo Stadium a Sandulli, cadesse come un castello di carte. Non si può sostenere che “mi sa che il Napoli si sia accordato con la ASL, perché si sa signora mia come sono fatti sti napoletani” (questo diceva la sentenza Sandulli) ma ci vogliono le prove. E in mancanza di prove, l’imputato è assolto (strano, ma vero). Inoltre si dimostra che il protocollo non sia al di sopra della legge dello Stato e, se questo non riesce a coprire tutta la casistica, come quella del caso specifico, saranno necessari dei correttivi. Soprattutto però, che piaccia o no, esce demolito il principio di presunzione di colpevolezza del Napoli, di Napoli e dei napoletani, la violenza inaudita della sentenza Sandulli, convinto di potersi fare scudo dell’abiezione dell’attribuzione di disvalori a una parte del paese, sulla quale è costruita la narrazione nazionale. Se l’Italia avesse ancora un po’ di senno farebbe tesoro di questa sentenza.