Lui e lei, 70 e più. Lui più vicino agli 80, lei qualcuno in meno, nel piccolo supermercato a pochi metri da casa. Hanno l’aspetto comune di nonni qualsiasi di nipoti qualsiasi.
Lui va alla bilancia con il sacchettino trasparente. Dentro ci sono 4 o 5 pere. Le pesa, cerca a lungo il pulsante giusto, poi lo preme. Stacca l’etichetta adesiva e la applica alla busta. Poi si gira verso di lei, che gli si è avvicinata fin quasi a sfiorarlo. Lui tiene la busta aperta. Lei rapidamente infila un altro paio di pere che tiene in mano. Intanto i due corpi fanno scudo. E’ un attimo.
Lui si rigira e sigilla la busta con l’adesivo rosso e la mette nel carrello. L’operazione si ripete con le pesche, le prugne, i pomodori. Le albicocche a 3.90 € in piena estate le guardano a lungo. Poi le lasciano lì. E’ troppo anche con l’autoriduzione. Lo rifanno con le zucchine. Stavolta lei ne infila solo una con quel movimento velocissimo che ho imparato, con una certa ansia, a riconoscere. Causa un’enorme pena vederli… mi allontano. Ovviamente non mi sfiora neanche il dubbio. Non è questione, come cantò Francesco de Gregori, se stai dalla parte di chi ruba nei supermercati o di chi li ha costruiti rubando. E’ istintivo, a pelle, senza alternative.
Piuttosto mi sento un guardone. Guardone della miseria con la quale quegli anziani sono costretti a convivere e delle strategie di resistenza che mettono in atto per andare comunque avanti, insieme. Quella che adottano è una strategia senza respiro ma è evidente che non sappiano pensare alternative. Rubare è l’unica cosa che viene loro in mente. Non pensano a mense popolari, associazioni, gruppi di acquisto solidale e altre strategie che provino a ricostruire un tessuto locale strappato. Chi dovrebbe avergliene parlato? Sì, lo so (qualche lettore ci sta pensando di sicuro) magari hanno votato pure per Silvio Berlusconi. E allora? Cavoli loro?
Mi riviene in mente una storia montevideana degli anni ’90 che vissi in prima persona. E’ la storia delle commesse solidali.
In America la sorveglianza nei supermercati è enorme. Il lavoro costa poco e vale poco. A Montevideo erano gli anni più crudeli del neoliberismo, quelli della carestia indotta dall’FMI. C’era chi moriva di fame ma era tanta anche la classe media che affondava, a partire dai suoi anziani. Piccoloborghesi, insegnanti, impiegati, che dall’inizio della dittatura e poi con il neoliberismo che ne fu naturale continuazione, avevano visto ridursi di otto volte in vent’anni il loro potere d’acquisto, invidiabile fino ai primi anni ’70. Interi progetti di vita scoprivano di avere avuto da sempre le gambe d’argilla. Si aggiravano tra gli scaffali, soppesavano, cercavano offerte, andavano via quasi a mani vuote.
Le cassiere dei supermercati però erano le loro figlie e nipoti. Avevano da qualche parte della città un loro nonno che si aggirava a mani vuote in un altro supermercato. Come tutti in Uruguay avevano studiato, ma la precarizzazione del lavoro non aveva dato loro che quella magra opportunità, otto ma anche dieci ore al giorno per 200-250 dollari al mese. Una non vita che presto, per i giovani, sfocerà nell’emigrazione di massa. Nonostante fosse una città piena di cultura e di coscienza politica, era molto triste la Montevideo degli anni ’90.
Chissà chi avrà cominciato per prima a distrarsi alla cassa… a far passare in silenzio un pacco di pasta o un chilo di yerba mate, o un pezzo di carne. Gli anziani, così decenti, all’inizio, se se ne accorgevano, lo dicevano: “signorina… si è sbagliata”. Loro si scusavano e ripassavano la confezione sotto il lettore ottico.
Poi ci riprovavano, un pezzo ogni tanto, senza dare nell’occhio. rischiavano il posto, una denuncia. Lo facevano un po’ per rabbia contro i padroni, un po’ per solidarietà. Chissà chi iniziò ma la moda venne allargandosi. A poche persone a Montevideo non è capitato di vedersi abbonata almeno una volta una parte della spesa. Se ne arrivò a parlare perfino nei media, ma sottovoce, senza scandalo, pudicamente come tutto a Montevideo. Qualche ragazza veniva pure scoperta ma tutto restava sotto traccia. Forse i padroni volevano evitare che un piccolo storno percentuale diventasse ribellione aperta in un paese che, educatamente, li odiava.
Le commesse erano migliaia e quelle solidali dovevano essere parecchie centinaia. Le altre forse semplicemente non ne avevano il coraggio. La solidarietà tra i cittadini era forte, tutti sapevano che cosa stava succedendo al loro paese e non c’erano capri espiatori da cercare nei più deboli. Il rancore verso le multinazionali della grande distribuzione era grande e la pena per il male di vivere di troppi cittadini diveniva patrimonio comune. Forse anche quella delle commesse solidali non era una strategia risolutiva, ma almeno disegnava una società che reagiva insieme e si alleava, almeno empiricamente, spontaneamente, contro gli abusi di un sistema che la impoveriva (le commesse come i clienti) per favorire grandi arricchimenti.
Mi domando che strategie adotterà la società italiana nel dover forzatamente imparare a volare basso. Non solo la quarta settimana, ma anche le prime tre. Mi domando se sapremo adottare strategie solidali o se continueremo a scaricare sul più debole il peso più grande, che è l’essenza dell’ideologia dominante del berlusconismo, come la Finanziaria di ieri testimonia. Non ho una risposta. O forse preferisco non averla.