È troppo facile farsi amare dai napoletani. Due moine, una foto col tramonto, una pizza (dio che noia), una dichiarazione d’amore eterno, magari evocando imparaticce ingiustizie storiche o di ieri l’altro, e ci sciogliamo.
Del resto, altrimenti, dialogateci voi con chi associa sistematicamente a te e a tua madre dei disvalori, parla di te esclusivamente per stereotipi, che nulla hanno a che vedere con la tua persona e la tua vita reale, che si sente in diritto di farti il verso perché il suo accento è nobile e il tuo plebeo, ed è pervicacemente convinto che tutti i mali del paese derivino dalla tua esistenza in vita.
Sono quegli stessi che, quando i napoletani capiscono il gioco e si fanno arcigni, non si fanno comprare per due specchietti colorati, per lo più azzurri, ed esigono rispetto, allora ti danno del vittimista e del permaloso. Allora non siamo più “simpatici”, paternalista espressione che condensa la massima concessione del razzista che finge di non esserlo, che nella simpatia identifica solo la subalternità e la sottomissione.
Certo, è facile, umano, necessario, farsi ammaliare da chi scopre per te un improvviso amore, va da sé eterno, rispetto a chi ti ingabbia, ti pregiudica e si sente in diritto di umiliarti. È più facile lasciarsi amare che disprezzare e vivere in trincea per farsi rispettare, puntigliosi, rompiscatole, controegemonici contro chi crede di saper campare meglio di te e ti fa sempre recitare a soggetto due sole parti: o quella del cattivo o quella del fesso.
Il calcio, con la sua iperpopolarità e la sua ferrea logica ultraliberista, ha la capacità di rivelare fenomeni ben più complessi. E per i nemici di Napoli, i molti che in Italia, per lo più politici e comunicatori, hanno interesse alla rappresentazione subalterna di Napoli (e quindi sono mio nemico), proprio il calcio serve a dettare la linea. Napoli non può trasgredire, non può sfuggire al suo ruolo subalterno. I nostri eroi lo sono e lo saranno solo per usarci per farsi cooptare altrove. Perfino l’affetto e la stima sarebbero una finzione. Il trionfo vero – in questa lettura – può solo essere ottenuto lontano da qui, solo alla Juventus, dove vincere è l’unica cosa, l’unico metro, l’unico valore, e per quanto tu possa trovare stucchevole la retorica della bellezza. Qui noi invece non possiamo alzare la testa, perché non varremmo nulla e saremmo etnicamente destinati alla frustrazione eterna.
E allora dovremmo fare come fanno loro, tutti gli altri, fargli le pulci dalla mattina alla sera, rivendicare il normalismo napoletano contro l’eccezionalismo del quale pure molti di noi si beano. Beati voi, che vivete nel migliore dei mondi possibili e, per ogni disservizio o corruttela in un paese tutto infetto come l’Italia, troverete conforto nella certezza che a Napoli sia peggio.
E allora dovremmo saper mettere a ferro e fuoco Roma, Torino o Treviso non per Maurizio Sarri alla Juve, l’ultimo dei ciarlatani dell’amore eterno, ma per il destino dei lavoratori della Whirpool, ingannati, vilipesi e lasciati soli in un processo di deindustrializzazione dove la classe operaia napoletana è vittima, e per il secessionismo dei ricchi voluto dalla Lega, che ci priva di scuole e ospedali contro la Costituzione repubblicana per la quale tanti napoletani hanno combattuto e sono morti. E al cretino che per compiacerci ci magnifica la pizza, dovremmo rispondere sempre che la cucina napoletana è molto di più, è meglio, e non sa cosa si perde.