Con il primo turno delle elezioni presidenziali in Brasile vivremo oggi il penultimo passaggio di una battaglia politica durata due anni con l’obiettivo di eliminare il Partito dei lavoratori, che ha vinto le ultime quattro elezioni presidenziali, dalla vita politica del paese. Nel corso dei mesi la partita è diventata drammatica, già che il Brasile non rischia di tornare alla destra conservatrice tradizionale, ma consegnarsi a un regime parafascista incarnato da Jair Bolsonaro, destinato oggi a vincere il primo turno delle elezioni e a giocarsela nel ballottaggio con il candidato di centro-sinistra Fernando Haddad, indicato dal carcere da Lula Silva.
L’eliminazione della sinistra dalla partita non è però l’unica posta in gioco. È la battaglia cruciale per il superamento dell’esperienza integrazionista e progressista che ha governato dall’inizio del secolo in tutta la regione latinoamericana e per la restituzione di questa al suo destino di subalternità. Ed è soprattutto la seconda vera partita in America tra il trumpismo di un’estrema destra bianca populista, reazionaria, razzista, sessista, omofoba, quella incarnata dal fascista Jair Bolsonaro, 63 anni, che supera di gran lunga le destre già razziste, sessiste e omofobe – ma più o meno civilizzate nel conservatorismo e nel neoliberismo – che hanno spesso convinto nel continente le classi medie bianche. Col suo movimento “Brasile e dio prima di tutto” ha conquistato il capitale sempre più decisivo del voto evangelico, che vale fino al 20% dei voti e che in passato aveva premiato Marina Silva, rabbiosamente reazionario rispetto a quello cattolico, tradizionalmente progressista.
Bolsonaro è dunque Salvini, è Trump, è Le Pen, è Orban e peggio di tutti questi insieme. Non è certo un uomo nuovo, visto che è parlamentare da 28 anni, nei quali ha fatto approvare appena due progetti di legge, ma ama presentarsi come tale. La coltellata di uno squilibrato il 6 settembre gli ha dato l’aura del predestinato. Nel vuoto assoluto di una campagna fatta solo d’odio, di esaltazione della tortura e della mano dura in un paese dove la polizia già uccide extragiudizialmente 5000 persone l’anno, il ruolo di vittima era il meglio che potesse accadergli. Ma se oggi, o meglio nel secondo turno del 28 ottobre Bolsonaro sarà fermato, sarà innanzitutto per la coscienza delle donne brasiliane, attivatesi in questa settimana nello straordinario movimento #EleNão, “Lui no”.
La cronologia politica del XXI secolo brasiliano gira però tutta intorno a chi non potrà candidarsi. Lula da Silva, dopo una vita di lottatore sociale e sindacale, contro la dittatura prima e contro i governi neoliberali dopo, incarna nel 2003 il culmine di un processo di accumulazione di forze della sinistra socialdemocratica brasiliana. Non sta a questa nota il fare un bilancio in chiaroscuro sul suo governo e la titanicità del compito storico e delle necessità dei 200 milioni di persone. Per i più critici i governi del PT sono stati la stampella che ha garantito stabilità al sistema capitalista, per i più favorevoli hanno fatto il massimo per ridurre la povertà senza avere materiali possibilità di cambio strutturale. Nonostante la sistematica demonizzazione dei media monopolisti, e la permanenza di problemi strutturali quali corruzione e violenza di strada, quando Lula uscì dal Palazzo di Planalto otto anni dopo lo fece con i maggiori indici di approvazione della storia e un enorme prestigio internazionale.
Dilma Rousseff, erede politica di Lula e prima donna presidente, fu eletta nel 2010 e nel 2014. Non riuscì a completare il secondo mandato: in un parlamento di corrotti, nel 2016 veniva votato l’impeachment contro l’unica non corrotta. A tutt’oggi: per quali colpe fu votato un impeachment che corrispondeva solo ad un voto di sfiducia di un parlamento che si liberava dell’etica incarnata dalla presidente? Tanto era l’odio nei confronti della ex-militante contro la dittatura, che Jair Bolsonaro – oggi candidato dell’estrema destra – votò la sua destituzione in nome dei torturatori che l’avevano seviziata durante il regime civico-militare. Eliminata Dilma, questa fu sostituita da un governo di destra conservatrice senza alcun credito nel paese, con l’obiettivo di decantare la situazione e preparare il passaggio successivo, che era azzoppare il politico costantemente in testa ai sondaggi, Lula da Silva e riconsegnare il paese ai tucanos, la destra tradizionale. Quello contro Dilma fu un colpo di Stato istituzionale, un golpe bianco all’unico fine da parte delle classi dirigenti di evitare il ritorno di Lula. Il politico incaricato della coltellata alla schiena, Michel Temer, un mediocre salvo che per la corruzione, di quello si è incaricato negli ultimi due anni: fermare Lula.
Più i media monopolisti demonizzavano Lula, per completare l’opera e preparare il ritorno di un conservatore alla presidenza, più questo sembrava imbattibile e non bastavano neanche le condanne in primo e secondo grado, ma non definitiva, in un tenebroso processo senza prove per corruzione, considerato insostenibile dalla maggior parte degli osservatori. Lo hanno voluto condannare ma Lula restava l’unico candidato plausibile. Lo hanno dovuto incarcerare e lo hanno dovuto inabilitare. Neanche questo è bastato se è vero che Fernando Haddad, che oggi è l’unico credibile freno alla deriva fascista di Bolsonaro, è uscito dall’anonimato del 4% nei sondaggi solo con l’investitura di Lula. Haddad, 55 anni, peraltro non è un parvenu della politica, già sindaco di San Paolo e ministro dell’Educazione di Lula (il che non è un buon viatico dato che proprio nell’educazione l’esperienza lulista non ha saputo imprimere svolte), ma si è trasformato nel campione del Brasile democratico solo con l’investitura del presidente desiderato, continuamente evocato, ma che dal carcere non può nemmeno concedere interviste. Considerando scontato il voto del nord-est lulista, tanto è istituzionale il profilo del paulista Haddad che la sua vice-presidente è la comunista gaucha Manuela D’Avila, 37 anni.
Quindi il progetto politico della destra tradizionale si è a questo punto imballato due volte. L’impresentabilità di questa, l’incapacità di offrire altre ricette al grande paese del Sud, che con Lula aveva per la prima volta svolto il ruolo di potenza regionale e con i BRICS globale, lungi dal riportare il Brasile nell’alveo conservatore e neoliberale creavano il fenomeno Bolsonaro (che in politica internazionale promette di allinearsi a Trump e invadere il Venezuela) e che promette di fermare quegli stessi fenomeni, corruzione e microcrimine, che né destra né sinistra hanno saputo contrastare. Oggi se carte in mano restano in particolare all’elettorato bianco e di classe media non è tra il centro conservatore, la polarizzazione PSDB-PT vissuta negli ultimi trent’anni con Fernando Henrique Cardoso prima, quindi con Lula, e infine con Dilma Rousseff, ma tra caduta del regime democratico, per imperfetto che sia, in una forma di fascismo incarnato da Bolsonaro con i suoi bianchi e i milioni di evangelici e un centro-sinistra che, per quanto inviso sia Lula a questo elettorato, lo difende. Parliamoci chiaro, se oggi Bolsonaro non vince al primo turno, dando fiato per il ballottaggio ad Haddad o chi per lui per combattere una nuova battaglia, sarà comunque il centro politico, la palude degli elettori orientati dalle televisioni a decidere se prevarrà il discredito del centro-sinistra, la paura di Bolsonaro, o la forza delle donne.