Il ministro degli esteri argentino Héctor Timerman (foto) ha disposto di rifiutare qualunque pratica per l’ingresso nel paese australe della salma (la tentazione di usare “carogna” è forte) del genocida Erich Priebke: «L’Argentina non può accettare un tale affronto alla dignità umana» Sia la DAIA che l’AMIA, le due principali organizzazioni ebraiche del paese, hanno immediatamente considerato impeccabile la decisione del ministro di Cristina Fernández de Kirchner, quest’ultima convalescente dall’operazione al cranio di martedì.
La pronta decisione di Timerman su Priebke è l’ennesima testimonianza della svolta di 180 gradi impressa alla politica dei diritti umani in Argentina, iniziata nel 2003 quando Néstor Kirchner annullò le leggi d’impunità volute dal governo neoliberale di Carlos Menem dando corso ai processi per violazioni di diritti umani che in questo momento tengono in carcere con condanne definitive quasi 700 repressori e con 3.000 processi ancora in corso. È una differenza fondamentale e irriducibile quella tra l’Argentina kirchnerista dell’ultimo decennio e l’Argentina che accolse Priebke nel dopoguerra e poi massacrò decine di migliaia di persone nei golpe del 1955, 1962, 1966 e 1976. Tutto è reversibile ma è necessario (e disonesto non farlo) riconoscere la forza, la capacità e la dignità dell’Argentina e dell’America latina di riscrivere la storia anche sui diritti umani.
Vale la pena ricordare che Hector Timerman è figlio di Jacobo, giornalista ed editore prestigioso, direttore del quotidiano La Opinión, che fu sequestrato per tre anni dalla dittatura dal 1977 al 1980. Il giovanissimo Héctor parlò alle Nazioni Unite per chiederne la liberazione. Finito l’incubo personale Jacobo si rifugiò in Israele dove scrisse uno dei primi libri di memorie sullo sterminio in Argentina: Prigioniero senza nome, cella senza numero.
È una testimonianza intensa, rafforzata dal venire da un giornalista liberal-democratico, proveniente da una famiglia ebrea ucraina (dov’era nato negli anni ‘20) sopravvissuta alla Shoah, alla quale si sentiva libero di far riferimento nel denunciare l’antisemitismo della dittatura argentina. Alcuni interrogatori, che appaiono basati su una riproposizione rioplatense dei protocolli dei savi di Sion, sono surreali. Veniva accusato, e per confessarlo lo torturarono per settimane, di essere parte di un complotto ebraico con il quale i 400.000 ebrei di Argentina (bambini e anziani compresi) sarebbero stati sul punto di appropriarsi di un milione di ettari di territorio per creare in Patagonia una fantomatica Repubblica ebraica di Andinia (Timerman 1981, 69–80).
Pur avendo importanti mezzi economici, e nonostante il fatto che il sequestro del padre fosse un caso internazionale oggetto di campagne sia di Amnesty International che di organizzazioni ebraiche in tutto il mondo, fino all’interessamento dello stesso il presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter, l’allora poco più che ventenne Héctor ricordava a chi scrive – sembra paradossale – innanzitutto la solitudine: «Mia madre, a pochi giorni dal sequestro di mio padre, mi disse: “però che soli che siamo, che soli”. E veramente mio padre era solo, completamente solo, accompagnato, come lui diceva, “dai miei lettori”».