Secondo una ricerca dell’Instituto Mora di città del Messico la guerra alla droga avrebbe causato in Messico 1.6 milioni di rifugiati, sfollati, persone che hanno dovuto abbandonare la loro casa per distinti motivi connessi al narcotraffico o, più spesso, alla guerra contro questo che ha causato oltre 50.000 morti durante il governo di Felipe Calderón.
Tra questi vi sono persone di tutti i tipi. Imprenditori benestanti che, per paura del racket, dei sequestri o dei taglieggiamenti dell’esercito, hanno trasferito legalmente i loro affari negli Stati Uniti o che hanno semplicemente trasferito il domicilio trasformandosi in frontalieri nord-sud; giornalisti, accademici, difensori dei diritti umani minacciati che da San Diego a El Paso si considerano, e a volte vengono riconosciuti come veri rifugiati politici; soprattutto vi sono persone umili travolte dalla violenza, che hanno perduto quel poco che avevano, spesso dalla sera alla mattina, trasformandosi in rifugiati interni o andando incontro all’ignoto passando clandestinamente la frontiera. E tutte queste persone non hanno nulla a che vedere, si aggiungono, ai 400.000 messicani che anche quest’anno sono entrati clandestinamente negli Stati Uniti.
Anche se il numero di 1.6 milioni di rifugiati appare (almeno a chi scrive) indimostrabile e almeno parzialmente esagerato, fotografa in maniera perfetta la catastrofe del Messico calderonista e della sua pseudo-guerra alla droga. Non solo i 50.000 morti, soprattutto carne da cannone sottoproletaria, ma centinaia di migliaia di famiglie, soprattutto di classe media e popolare, che hanno visto la loro vita completamente travolta dalla droga e soprattutto dalla guerra alla droga, combattuta solo militarmente.
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