Gli abbracci di Santo Domingo distendono ma non risolvono la crisi latinoamericana. Uribe cerca di uscire dall’isolamento nel quale lo ha cacciato la “guerra al terrorismo” senza modificare la propria linea politica. Il soft power brasiliano ha un volta di più impedito l’internazionalizzazione del conflitto colombiano, voluta da George Bush, ma i giochi restano aperti.
I media mondiali celebrano la fine della crisi delle Ande. Le foto e i video mostrano la lunga passeggiata di Álvaro Uribe per abbracciare prima Rafael Correa, poi Hugo Chávez, infine Daniel Ortega. I media meno corretti -ma con insolita prudenza- preferiscono puntare su questi abbracci teatrali dopo gli scambi di accuse che, di persona, sono stati altrettanto duri di quelli rivolti dalle rispettive cancellerie in questi giorni.
La foto che mostriamo, giocando un po’ anche noi, illustra il presidente dominicano Leonel Fernández (quasi sosia di Jessie Jackson) mentre si atteggia a Bill Clinton tra Itzhak Rabin e Yasser Arafat in un’altra stretta di mano famosa e purtroppo sterile. Tra l’altro nel video si vede come l’anfitrione giunge in ritardo, quando già Uribe e Chávez si stringono la mano a regalarsi una meravigliosa photo-opportunity. Potenza della politica spettacolo che nasconde un’agenda latinoamericana che resta difficile e che dobbiamo analizzare.
I media più corretti testimoniano del documento con il quale il presidente colombiano Uribe ha chiesto scusa per iscritto, mettendo nero su bianco l’ammissione di responsabilità per il massacro della scorsa settimana, sul quale emergono con lentezza dettagli sempre più crudi, e con il quale si è formalmente impegnato a non violare più il territorio dei paesi confinanti. La lunga passeggiata, il video è qui a fianco, con la quale Uribe cerca di uscire dall’isolamento profondendosi in baci e abbracci con i presenti, è un’invenzione di successo del presidente colombiano. Ma è comunque il documento il fatto sostanziale. Un documento che offre le scuse colombiane per un’azione bellica che appena poche ore prima era stata energicamente difesa dal governo statunitense di George Bush, che è il vero (anche se temporaneo) sconfitto del chiarimento di Santo Domingo che sul breve periodo alleggerisce la situazione, e ci induce ad alcune considerazioni.
La prima è che ha prevalso la presa di posizione fermissima di tutta l’America latina, spaventata dall’internazionalizzazione del conflitto, messa in atto dalla Colombia con lo sconfinamento in Ecuador. E’ un’internazionalizzazione temuta da dieci anni, e desiderata dagli Stati Uniti più che dalla stessa Colombia, perché funzionale al loro piano di militarizzazione e destabilizzazione della regione più pacifica del mondo. Dove c’è guerra c’è speranza per il più grande produttore al mondo di armi che ha visto ridurre radicalmente la propria influenza nella regione. Esportare la guerra colombiana in paesi considerati come nemici come il Venezuela o la Bolivia o l’Ecuador significherebbe destabilizzarli e sfidare il ruolo di potenza regionale del Brasile.
Le sfumature con le quali tutto il continente si è schierato contro la Colombia sono significativamente ben poche. C’è stata qualche titubanza del Perú e di qualche paese centroamericano. Ma tutti gli altri, incluso paesi come il Cile, spesso distanti da dirigenti politici come Hugo Chávez o Rafael Correa, si sono questa volta schierati decisamente a fianco dei partner regionali e contro Bogotà e Washington che aveva speso tutta la propria influenza in favore della Colombia. A Santo Domingo, sul tallone statunitense, ha prevalso il soft power di Itamaraty, la Farnesina brasiliana, che ha ancora una volta gestito nella direzione voluta la crisi secondo i due principi di quella democrazia:
1) il conflitto deve restare in Colombia e per nessun motivo deve essere usato per destabilizzare la regione.
2) Si deve facilitare una soluzione, possibilmente latinoamericana, della guerra colombiana, che passi innanzitutto dalla liberazione degli ostaggi.
Dunque nella geopolitica della regione, come più volte dalla fine del “Consenso di Washington”, ci troviamo ancora una volta tra il militarismo e il volontarismo di Uribe e George Bush, decisi ad incendiare il campo e destabilizzare soprattutto Venezuela, Bolivia ed Ecuador, e la gestione tranquilla della leadership brasiliana, decisa a salvaguardare la stabilità di tutti gli attori regionali.
Itamaraty parte da un grande vantaggio: il Brasile ed i suoi più stretti alleati, a partire da Chávez, possono mettere in campo un programma in positivo, che parla di pace, integrazione, redistribuzione e, nel caso colombiano, di liberazione di ostaggi e di soluzioni politiche a una guerra civile senza fine. Dall’altra parte invece il discorso è cristallizzato all’11 settembre 2001: “attacco preventivo”, “guerra al terrorismo ovunque si annidi”, amici contro nemici. E’ un discorso che, non solo per gli scarsi risultati ottenuti su tutti gli scenari, politicamente risulta oggi poco spendibile anche in molti ambienti che nel 2001 si allinearono alla logica bellicista statunitense.
Il secondo punto è che è sempre più evidente che qualcosa di gravissimo è successo nella selva ecuadoriana. Le informazioni filtrate dal governo di Quito e confermate da Kintto Lucas, uno dei più scrupolosi giornalisti latinoamericani, ci informano che tre emissari del presidente francese Nicolas Sarkozy si sarebbero dovuti riunire con il mediatore delle FARC Raúl Reyes il giorno stesso dell’uccisione di questo e di un numero ormai imprecisato di persone (almeno 25 oramai sono i morti nel massacro tra i quali forse 10 cittadini messicani, studenti e docenti della UNAM). I tre francesi sono stati avvisati all’ultimo momento dal governo colombiano di non avvicinarsi all’accampamento. Era il momento chiave di una trattativa in corso da tempo e interrotta dal massacro. Se si fossero riuniti con Reyes oggi probabilmente (lo afferma apertamente Correa) Ingrid Betancourt sarebbe libera.
Delle due l’una. O Álvaro Uribe ha usato le informazioni sulla mediazione di Correa e Sarkozy per liberare Ingrid Betancourt, per individuare Reyes ed eliminarlo. Oppure, più probabilmente, la coscienza dell’imminenza della liberazione di Ingrid Betancourt ha costretto Uribe ad agire per evitarla anche al prezzo di una grave crisi internazionale.
Qualunque di queste possibilità sia vera lo scenario è sempre più evidente: Uribe (e George Bush) non hanno voluto la liberazione di Ingrid Betancourt. Uccidendo Reyes l’hanno materialmente sabotata, come hanno affermato sia Rafael Correa (che sta emergendo come un’eccellente figura di politico latinoamericano) che la famiglia Betancourt. In questo senso, qualunque sia il giudizio sulle FARC, la morte di Reyes non è “guerra al terrorismo”. E’ solo “guerra sporca”.
A questo punto la crisi generata dalla violazione del territorio ecuadoriano lascia due strascichi positivi e due negativi. Quelli negativi sono che la volontà di Uribe di abbassare la tensione non cambia il suo programma politico di “guerra al terrorismo” e che i presunti successi militari (come la morte di un altro dirigente delle FARC, Iván Ríos) allontanano il momento nel quale il governo colombiano dovrà accettare trattative aperte con la guerriglia. Quelli positivi sono invece che la decisione con la quale il concerto latinoamericano è esploso contro la violazione del territorio ecuadoriano ha mostrato quanto costosa è per Colombia e Stati Uniti l’internazionalizzazione della crisi. Inoltre la forza della pace è un dividendo che alla fine può prevalere. Domani altri emissari francesi, o di Chávez o di Correa, nuovamente intavoleranno trattative con le FARC per salvare la vita di Ingrid e degli altri ostaggi. Hugo Chávez ha già mostrato le prove di esistenza in vita di altri sei ostaggi. Le iniziative di pace non possono fermarsi e bombardarle per Uribe sarà ogni volta politicamente più caro.