Articolo pubblicato su Il Manifesto
Jorge Troccoli, il torturatore uruguayano arrestato il 24 dicembre a Salerno, non è un boia qualsiasi. Scrisse un libro, “L’ira del Leviatano”, nel quale rivendicava i suoi crimini e pretendeva di frequentare l’Università come uno studente qualsiasi. La sua storia è paradigmatica della mentalità del repressore latinoamericano che non ha mai abiurato. Ma adesso che un passaporto italiano potrebbe evitargli l’estradizione, non si vergogna a proclamarsi innocente.
Ufficiale della Marina Orientale, fondata 170 anni fa da Giuseppe Garibaldi, Jorge Troccoli dopo la dittatura (1973-1985) fu tra i pochi a sentire il bisogno di articolare una difesa del suo operato che andasse oltre le parole d’ordine da guerra fredda. Ne nacque un libro, “L’ira del Leviatano”. Senza uscire da una logica
giustificazionista delle violazioni dei diritti umani, vi si leggeva una sorta di più complessa rivendicazione dell’azione che pretendeva di aver svolto in difesa della patria, una patria dove gli anticorpi, i militari, dovevano farsi carico di combattere l’infezione democratica a qualunque prezzo.
Con “L’ira del Leviatano”, emergeva la pretesa di Troccoli di essere riconosciuto come un servitore dello stato; voleva essere un rispettabile rappresentante della sua storia, magari frequentare talk show, in quanto torturatore, come se fosse normale. L’ufficiale di Marina con “L’ira del Leviatano” pretendeva insomma di andare in giro a testa alta. Come se la picana elettrica, il vomito del supplizio, la diarrea degli sfinteri dei torturandi incontrollati per il terrore, il liquido seminale degli stupri, il sangue delle ferite che sgorgava a fiotti, le ossa spezzate di quel sant’Uffizio moderno, i cadaveri putridi o i corpi ancora vivi gettati nel grande fiume, non lo avessero in nessun modo schizzato, macchiato, insozzato. O almeno lui, Jorge Troccoli non si sentiva infangato dalla macelleria della quale era stato protagonista e continuava a vedersi pulcro nella sua bianca divisa di gala da ufficiale di Marina.
Mi incrociai di nuovo con la presenza di Jorge Troccoli a Montevideo alla fine degli anni ’90. Nonostante la democrazia formale fosse stata restaurata in Uruguay da più di 10 anni, il patto tra politici e militari per l’impunità vigeva rigidissimo. Troccoli e tutti gli altri repressori erano liberi cittadini. Non rispettati, ma liberi. HIJOS, l’organizzazione dei figli di detenuti politici e desaparecidos, teneva alta la guardia facendo informazione di strada. Andavano nei quartieri e chiamavano quelle azioni informative e riparatorie “escratche”. “Qui vive un torturatore”, spiegavano ai vicini, distribuivano volantini, macchiavano di rosso sangue le mura dei condomini bene di Pocitos e di Malvín. Il presidente di allora, Julio María Sanguinetti, per questo additava come terroristi quei ragazzi cresciuti nei parlatori delle carceri politiche.
Nessuno, neanche HIJOS, credo che però avesse individuato Troccoli e tantomeno fosse riuscita ad escracharlo. Dai suoi cinquant’anni ben portati si iscrisse e prese a frequentare la Facoltà di Scienze sociali dell’Università della Repubblica. Cordiale, più di una persona, studenti e docenti, mi raccontavano stupiti di aver chiacchierato con lui, scambiato appunti e qualche mate. Era uno studente attempato qualsiasi, assiduo, partecipe e con buon profitto. Ancora una volta Jorge Troccoli voleva sfuggire al suo passato senza abiurarlo né smettere di rivendicarlo, come il suo libro aveva testimoniato.
Poi qualcuno lo riconobbe: quello studente in Scienze sociali è Troccoli, il marinaio torturatore. Si aprì un dibattito e gli studenti finirono per votare e decidere: non vogliamo un torturatore come compagno di banco, se non lo allontana il decanato, lo espelliamo noi. La polemica nel paese durò molti giorni. Lui riuscì a passare da vittima, sono un libero cittadino, ma alla fine dovette fare un passo indietro evitando il braccio di ferro. Non era con la forza che il torturatore voleva essere accolto. Non si limitava a godere delle “rendite da genocidio”, ville con piscina, proprietà, auto di lusso, che tutti i sodali delle dittature hanno accumulato. A lui non bastava, pretendeva di essere compreso, amato e stimato perfino dagli studenti universitari, spesso figli di persone che lui stesso aveva tormentato. Troccoli voleva più dell’impunità, voleva quello che in nessuna società umana quelli come lui possono pretendere se non con la forza della paura; voleva il rispetto.
Poi il clima è cambiato. Quando pochi giorni fa Gregorio Álvarez, il dittatore del quale fu uno stretto collaboratore, fu arrestato a Montevideo, il mandato di cattura a lui riservato lo trovò già da tempo latitante. Si sapeva che era in Italia e qui è stato arrestato la vigilia di Natale. Qualcuno nel 2002 ha ben pensato di concedergli la cittadinanza italiana nonostante ne fosse palesemente indegno. E lui se ne fa scudo per evitare che la giustizia faccia il suo corso.
Adesso Troccoli non sfida più l’opinione pubblica, non rivendica più il Leviatano né pretende rispetto. Anzi, per la prima volta si dichiara innocente e perseguitato da un paese che sta finalmente facendo i conti con il proprio passato. I calcoli di Troccoli sono molto più spiccioli e si avvicinano a quelli di un delinquente comune. “Ho fiducia nella giustizia italiana” afferma, e suona sinistro pensare che anche per lui oggi l’Italia possa essere il luogo dell’impunità. In quanto cittadino italiano non sarà estradato in Uruguay e tanto gli basta. E l’onore della bianca divisa da ufficiale di marina è stata sempre una pietosa bugia.