Chi poteva immaginare Nestor Kirchner, il ragazzo della Gioventù Peronista divenuto presidente della Nazione in uno dei momenti più difficili della storia mai facile dell’Argentina, come un cardiopatico morto a sessant’anni appena compiuti? Chi poteva immaginare, ricordando l’immensa vitalità con la quale saltava da un capo all’altro della Patria grande latinoamericana, che in questo inizio di XXI secolo aveva contribuito a disegnare nella sua ineludibile integrazione, che il suo cuore potesse non reggere più?
Anche quando nelle ultime settimane erano giunte notizie allarmanti su ricoveri e interventi chirurgici, si collocava Don Néstor ancora nella sfera dei giovani cavalli di razza della politica continentale. E lo si vedeva alla vigilia di lanciarsi in una nuova e più appassionante sfida politica, quella di succedere a sua moglie Cristina e tornare alla Casa Rosada per dare continuità al progetto kirchnerista di Argentina. È quel progetto che aveva plasmato la speranza dell’Argentina nei giorni bui dell’uscita dalla notte neoliberale che aveva portato il paese al crollo di fine 2001.
Ancora pochi giorni fa svolgeva un ruolo attivissimo nella soluzione del colpo di Stato in Ecuador contro il governo amico di Rafael Correa, lui segretario generale di quella UNASUR, l’Unione delle Nazioni Sudamericane che in poco tempo si è imposto come il principale consesso regionale sulla base del fatto che il contributo degli Stati Uniti (da sempre egemoni nell’OSA, l’Organizzazione degli Stati Americani) è in genere il problema e quasi mai la soluzione alle crisi regionali.
Il primo straordinario contributo di don Néstor fu evitare il far ripiombare il paese nel passato obbligando il suo rivale Carlos Menem a rinunciare al ballottaggio al quale erano giunti insieme nella corsa alla prima elezione presidenziale post-crollo del dicembre 2001. Menem era l’uomo simbolo delle peggiori tragedie neoliberali, della distruttiva parità col dollaro che in 13 anni aveva completamente deindustrializzato il paese, della chiusura delle mense costringendo migliaia di bambini a morire di fame, dell’abbandono delle scuole e degli ospedali pubblici, del disastro culturale prodotto dalle televisioni commerciali, dell’impunità per le violazioni dei diritti umani e delle “relazioni carnali” con gli Stati Uniti.
Semplicemente sconfiggendo la prospettiva dell’eterno ritorno di un governo coloniale a Buenos Aires, Néstor Kirchner aprì una pagina nuova nella storia del grande paese australe. Per voltare pagina, in un modello sociale, quello kirchnerista, non certo radicale, ricostituì la sovranità nazionale stuprata dalla dittatura del Fondo Monetario Internazionale. Con l’aiuto politico ed economico del brasiliano Lula da Silva e del venezuelano Hugo Chávez, chiuse la pagina più nera della storia argentina saldando il debito con l’FMI e recuperando la capacità del paese di scegliere le proprie priorità. Inaugurò così una stagione nella quale rifecero capolino le nazionalizzazioni, un vero tabù in un paese completamente privatizzato, e fu uno dei baluardi, di nuovo con Lula e Chávez, nell’impedire il progetto dell’ALCA.
L’Area di Libero Commercio delle America doveva essere la risposta di George Bush alla Cina: l’intera America latina doveva essere un’immensa maquiladora dove in condizioni di lavoro semischiaviste, omologhe a quelle cinesi, gli Stati Uniti potevano combattere la battaglia per l’egemonia mondiale con il paese asiatico organizzando l’intera economia latinoamericana in nome di tale supremo interesse. Fu un battaglia che gli USA persero in quei giorni di Mar del Plata nel 2005 quando Kirchner sfilava con al fianco Diego Armando Maradona e gridava insieme a tutto un continente il proprio NO al modello neocoloniale rappresentato da Bush. Se è ragionevole sostenere che il neoliberismo non è mai tramontato in America latina, anche nei paesi integrazionisti, è altrettanto vero che la rottura della teoria della dipendenza operata in questo decennio da uomini come Néstor Kirchner è la premessa fondamentale alla costruzione di un modello sociale meno ingiusto.
Proprio con Lula e Chávez, don Néstor inaugurerà quel “concerto latinoamericano”, consultazioni quotidiane e incontri continui, che hanno portato a quello straordinario fiorire delle relazioni economiche (più che triplicate) e politico sociali nella regione, fino a ieri impedite dal modello neocoloniale di sviluppo.
Ma il contributo del ragazzo della Gioventù Peronista non si ferma alla politica economica e internazionale. In un momento nel quale il paese doveva ricostituire la propria dignità, capì che questa non potesse sedimentarsi senza giustizia. Così Kirchner si caricò del peso e del rischio politico di abrogare le leggi dell’impunità volute in epoca neoliberale per i militari violatori dei diritti umani responsabili dei 30.000 desaparecidos. Se oggi migliaia di processi per violazioni dei diritti umani sono in corso e l’Argentina è in grado di puntare il dito contro paesi come la Spagna incapace di fare giustizia per i crimini del franchismo, ciò è merito di quella generazione testarda di militanti di sinistra e peronisti della quale Kirchner faceva parte e che con l’abrogazione delle leggi d’impunità, Punto Finale e Obbedienza Dovuta, qualcosa di impensabile nell’Argentina neoliberale, ha saldato un impegno morale con i compagni sterminati per imporre il modello economico che ha distrutto il paese.
Oggi che finisce la corsa di Néstor Kirchner si aprono grandi interrogativi. Il kirchnerismo, il presidente, Cristina Fernández, hanno davanti a loro ancora un anno di governo per superare l’assenza del candidato naturale alla presidenza della Repubblica nelle elezioni del prossimo anno. La nuova America latina deve superare la prima scomparsa di un suo leader storico. La continuità dei processi popolari non è assicurata, ma le premesse, anche per l’azione di personaggi come Néstor Kirchner, ci sono tutte.