“Per gli Stati Uniti una donna come me è una minaccia” ha dichiarato Elvira Arellano, appena deportata in Messico. Chissà se adesso la sua voce giungerà più o meno forte in difesa dei diritti dei clandestini negli Stati Uniti.
Elvira Arellano, 32 anni, originaria dello stato messicano di Michoacán, lottava per poter rimanere vicino a suo figlio Saúl. Lui è cittadino statunitense. Lei è solo messicana. Ma per le leggi statunitensi non possono stare insieme, almeno negli Stati Uniti. Immigrata nel 1997, ebbe Saúlito due anni dopo, ma nel 2002, quando puliva pavimenti nell’aeroporto internazionale dell’Illinois, fu espulsa. Elvira che da un anno era rifugiata in una chiesa metodista di Chicago, è divenuta la voce e il simbolo dei 12 milioni di persone che vivono e lavorano negli Stati Uniti senza documenti e in condizione di privazione di ogni diritto.
Dalla chiesa di Chicago aveva condotto la sua battaglia fino a questa settimana, quando ha deciso di viaggiare a Los Angeles per partecipare ad una serie di incontri pubblici per la riforma della “bossi-fini” statunitense. Nonostante, o forse proprio per la sua condizione di personaggio pubblico, appena giunta a Los Angeles è stata presa, arrestata e deportata nel giro di poche ore a Tijuana.
Al momento il piccolo Saúl è rimasto in affidamento negli Stati Uniti. “Hanno voluto zittire la voce più forte di quelli che viviamo sotto continua minaccia di deportazione” ha dichiarato Flor Crisostomi, dell’associazione “Centro sin Fronteras” nella manifestazione di protesta e solidarietà con Elvira e Saúlito, immediatamente convocata a Los Angeles questo lunedì. L’associazione, durante la manifestazione, ha annunciato la nascita della campagna nazionale “Todos somos Elvira”.
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