Come nella Cacania, l’Austria di fine impero di Robert Musil de “l’uomo senza qualità”, stiamo spegnendo le luci e chiudendo il paese. Vogliono farci credere che sia più grande di quello che ci possiamo permettere. Succede con piccole decisioni, apparentemente inevitabili e neutrali. La mia Università dal primo luglio organizzerà la propria attività su cinque giorni lavorativi e non più su sei. Ci saranno deroghe fino a fine anno ma poi basta, tutto dovrà succedere dal lunedì al venerdì.
Riscaldare, illuminare e tenere aperte le sedi un giorno in meno è stato considerato tra i risparmi possibili quello meno doloroso in un contesto dove i fondi ordinari si riducono a precipizio. Alle sedi locali, nel falso rispetto della loro autonomia, non resta che arrovellarsi e adeguarsi ai tagli di un governo e di un ministro, Mariastella Gelmini, che considera l’educazione pubblica e la ricerca uno spreco e non un investimento.
Non discuto la decisione locale, se non questa sarebbe stata un’altra, e so che in amministrazione non dormono per trovare come aggiustarsi in un contesto nel quale è come se stessimo pescando sul fondo di un serbatoio ormai vuoto. Da vent’anni si taglia e tra i paesi OCSE siamo gli ultimissimi per PIL investito (pardon, sprecato) in Università e ricerca. Non so com’era e se c’è mai stata una Università delle vacche grasse, ma poi non lamentatevi se il paese non è competitivo, se non innova, se i professionisti sono sempre più approssimativi.
Le sedi che accorciano di un giorno la loro settimana lavorativa mi colpiscono e non soltanto perché vado quasi sempre a lavorare in dipartimento anche di sabato. Penso agli studenti stranieri che arrivano per il progetto Erasmus e dai quali, ci è stato spiegato, dipendono così ingenti fondi che per attrarli è bene attrezzarsi a far loro lezione in inglese. Faremo lezione in inglese, non è un problema, ma quanto saremo appetibili se per due giorni su sette non potranno andare in biblioteca e forse neanche potranno controllare l’email? Penso all’alta formazione, quella permanente che dovrebbe essere il futuro per rinnovare il paese, ai Master, che essendo rivolti a lavoratori, sfruttano il sabato mattina per le lezioni.
La mia è una Università virtuosa, di quelle con i conti in regola. In teoria potrebbe perfino assumere nuovo personale ma sembra che tutti gli sforzi siano inutili e che il futuro dell’educazione universitaria voglia per scelta politica prescindere dal merito, dal virtuosismo costantemente evocato dalla ministro nelle interviste preconfezionate e negato nei fatti e concentrarsi in poche sedi, grandi, possibilmente al Nord. Sembra ieri che la Confindustria chiedeva 200 università pubbliche per radicarsi sulle esigenze del territorio. Il ministero applica un costante mobbing sulle sedi. Più queste si mettono in regola, controllano la qualità, più arrivano nuove angherie, vessazioni, demansionamenti.
Eppure vedo quello che succede ogni volta che arriva un nuovo ricercatore: una boccata di aria fresca, idee nuove, entusiasmo, voglia di fare. Sento che ci abbiano fatto tutti entrare in una camera a gas proprio per privarci dell’aria fresca, delle idee nuove, dell’entusiasmo, della voglia di fare. In qualche modo ci organizzeremo, mi dico, ma causa angustia questo ennesimo segnale. Lavorerò mai in una Università e un paese che crescono? Dove ci siano mezzi per far ricerca e produrre cultura e ci sia spazio, secondo il dettato costituzionale, per i giovani capaci e meritevoli? Una Università dove gli spazi, i tempi, le opportunità aumentino invece di diminuire? Comincio a temere di no.