Domani si vota negli Stati Uniti per le cosiddette elezioni di medio termine. Se dovesse prevalere il partito democratico, verrà lanciata una grande operazione d’immagine tesa a presentare una svolta "pacifista" da parte della classe politica statunitense. Ma non sarà così.
Anzi, il partito della guerra probabilmente diverrà ancora più forte da domani negli Stati Uniti. Per esempio il 64% dei candidati democratici si oppone fieramente non alla guerra, ma al ritiro dall’Iraq e rifiuta perfino di discutere su di un calendario di ritiro. Una parte importante di loro sono stati rigidamente selezionati nell’ambito dei "Democratici per la Sicurezza Nazionale". Questa è molto più di una corrente di destra del partito. E’ la faccia democratica del "Progetto per il nuovo secolo americano", che appoggia le guerre, incluso quelle preventive, chiede al partito che rivaluti la propria evoluzione critica rispetto alla guerra del Vietnam, e riconosca l’ "eroismo" di dirigenti repubblicani come Ronald Reagan (sic!). Sono i democratici che hanno appoggiato tutto il peggio del neoconservatorismo, le guerre, invasioni, occupazioni, e aberrazioni come la Legge Patriottica, l’ annullamento dell’Habeas Corpus, che trasforma gli Stati Uniti in un simulacro di stato di diritto.
Su queste basi il partito prepara il programma per la campagna presidenziale del 2008. C’è una discrasia evidente tra classe politica democratica e gli elettori democratici. Gli Stati Uniti sono ben poco diversi dall’Europa e dall’Italia dove la volontà popolare è costantemente elusa dalla classe politica.
Tra gli elettori democratici meno di un terzo appoggia la guerra, ma sarà obbligato ad eleggere almeno due terzi di parlamentari favorevoli alla guerra. I democratici, quando criticano, criticano George Bush, la sua inazione, corruzione, inefficienza, più che criticare la guerra da questo voluta. Vorrebbero una guerra fatta meglio di come la sta facendo Bush, non la pace. Una guerra fatta meglio è quello che vuole anche Hillary Clinton, la più probabile candidata democratica alla presidenza della Repubblica, che ha più volte attaccato Bush per avere scelto l’ "appeasement" verso l’Iran.
Hillary Clinton, in politica internazionale, ha posizioni ben più a destra di quelle di suo marito Bill e, in quanto donna, sarà purtroppo stretta da una destra che le esigerà di dimostrare durezza ad ogni piè sospinto. Una sua eventuale presidenza ben difficilmente introdurrebbe un cambio in quest’ambito. Come in Cile, dove Michelle Bachelet era la più militarista dei candidati della Concertazione, così Hillary dovrà dimostrare affidabilità innanzitutto al complesso militare industriale che governa il paese. Eppure, dal punto di vista mediatico, l’unica cosa che conterà sarà la "novità" del presidente donna, una svolta di per sé, senza valutare che sarà una svolta formale ma non di contenuti.
Mercoledì i media mainstream probabilmente commenteranno all’unisono il crepuscolo del bushismo, ma quello che viene poi è già stato descritto da Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Gli uomini, e forse le donne, cambiano, ma il complesso militare industriale resta. E’ il nuovo Principe di Salina, il Gattopardo.
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