Sto scrivendo queste righe con writely, un programma di videoscrittura online che appartiene alla famiglia degli applicativi di Google. E’ un programma di scrittura testi gratuito, che senza avere la sofisticazione di Word di Microsoft, o anche solo di Openoffice -la principale alternativa gratuita- permette di scrivere testi buoni per il 90% delle esigenze. La caratteristica principale di Writely è che esiste solo online e che permette di lasciare online i propri testi come se fossero archiviati in una cartella del proprio computer.
L’idea di Google -e non solo- è nota ai più esperti, ma merita di essere divulgata per gli altri perché potrà nei prossimi anni rivelarsi dirompente: spostare piano piano tutto online, ovvero non solo i programmi usati, ma anche gli archivi personali. Tutto online, di modo che 1) programmi ed archivi siano accessibili da ogni computer del mondo. 2) i computer si trasformino in scatole vuote a prezzi molto economici, capaci solo di interfacciarsi con l’utente e di collegarsi alla rete, laddove anche la potenza di calcolo risiede su server remoti. Nel nostro computer resteranno all’incirca lo schermo, magari olografico, ovvero proiettato e non fisico, una tastiera, magari anche questa solo proiettata sulla scrivania, e un piccolo aggeggio grande come un cellulare capace di collegarsi, ovviamente senza fili ma Wi-Fi (o successivi protocolli) alla rete. Anche l’I-pod del futuro non avrà bisogno di memoria, ma solo di collegarsi alla rete.
E’ un processo reso possibile dalla rivoluzione della banda larga e dalla drastica riduzione del costo della memoria di massa. Basta ricordare che i primi fornitori di servizi offrivano 2 Mega come spazio per archiviare le email (mezza canzone mp3 o due o tre foto con buona risoluzione), oggi un GB (un film intero in DIVX) è il minimo. Ancora dieci anni fa ci collegavamo con un modem da 14.4, oggi con una linea ADSL mille volte più veloce e che oltretutto continua a passare sullo stesso doppino di rame. Tutto questo è vero, ed allora il futuro potrebbe essere proprio la fine della decentralizzazione sul proprio computer personale -che non a caso si chiama PC, ovvero Personal Computer- in favore della centralizzazione delle informazioni su pochi (migliaia) di server remoti. Tutto facile allora?
Non ne sono così convinto. Per almeno tre macroobiezioni. La prima è che può essere un sistema efficiente solo per chi non esce mai da zone particolarmente industrializzate, cablate e servite da reti wireless (senza fili) superefficienti e modernissime. Noi tutti teniamo ancora una candela in casa per il caso, sempre più remoto, che manchi la luce. E a volte manca. Chi scrive è già tra quelli che pensano che un computer non collegato alla rete sia di fatto una scatola semi-inutile. Ma con gli attuali pc, se manca la luce della connessione alla rete, almeno un testo si può ancora scrivere e salvare. Se c’è anche solo un vecchio modem 56.6, un email si può ancora mandare, a patto che ci sia un vecchio doppino di rame. A Civilization o SimCity si può ancora giocare. Ecco allora che la novità di un computer a bassissimo costo (100 o 200 dollari) non è per niente l’idea del computer per tutti ma semmai il contrario, e si rivela un’idea profondamente classista. Quanto ci metterà quel mondo che non è così facilmente collegato alla rete ad adeguarsi, se mai si adeguerà? Dai nostri paesi di montagna alla selva Lacandona, quella del tutto online appare un’utopia che aumenta e non diminuisce il digital divide tra ricchi e poveri e tra nord e sud. I primi avranno ancora più risorse disponibili a prezzi sempre più accessibili, i secondi verranno semplicemente lasciati indietro. Non era questa l’idea del progresso tecnologico che la rete propagandava.
La seconda obiezione attiene al mondo della privatezza e della sicurezza. Che succede se i miei dati, tenuti da terzi, sono violati, o anche se semplicemente un guasto li rende inutilizzabili? Forse il 90% degli utenti medi non ha nulla da nascondere, ma io non ho alcuna voglia di trasferire online tutto il mio archivio, tutti i miei progetti, documenti, articoli, perfino tutte le mie chiavi, password e codici segreti, compresi quello del bancomat e della carta di credito. Quello che voglio mettere online ce lo metto io, quello che non voglio mettere, non ce lo metto. Oltretutto tutte le mie informazioni sarebbero probabilmente conservate su di un server residente in un paese straniero, non necessariamente empatizzante con le mie idee politiche.
Saranno obiezioni che probabilmente supereremo con il tempo -in fondo sono più di 10 anni che faccio tranquillamente acquisti online senza alcuna esperienza negativa- ma che al momento lasciano remore. Quando sono in Italia porto sempre meno in giro con me il mio pesante portatile da 3 kg, che invece è ancora comodissimo a letto o in bagno. Ma porto sempre con me la mia pennina, la pendrive. Meno di un anno fa, la pagai 80 Euro ed ha una capienza di un Gb. Adesso, per la stessa cifra, di Gb te ne danno il quadruplo. Nel 90 o 95% del mio tempo, a casa, al lavoro, case di familiari o amici, uso gli stessi 6-7-10 computer al massimo, e già la mia mobilità è ben oltre la media, già che il 90% delle persone probabilmente non usa, nell’arco di un anno, più di un paio di terminali. Cosa diavolo mi importa -per le poche volte che vado in un Internet Caffé- mettere 365 giorni l’anno i miei dati a disposizione degli scherzi di un ragazzino taiwanese? In fondo con una pendrive, grande meno di un accendino, posso già portare dietro tutto quello che mi serve.
Non solo -ed è la terza obiezione, che è di carattere più culturale e politico- l’idea della centralizzazione degli archivi è francamente opposta a due idee di progresso e di condivisione del sapere che sono state e restano chiave. Da un lato è opposta alla teoria con la quale nacque Internet negli anni ’60: la decentralizzazione delle informazioni su molti computer fisicamente distanti, ma collegati in rete, rendeva inattaccabile la conservazione delle informazioni stesse. C’era la guerra fredda… Dall’altra la centralizzazione, lo spostamento dei dati da molti punti a pochi, mette a rischio la biodiversità informatica del pianeta più di quanto non l’abbia messa a rischio in questi anni il monopolio Microsoft con il DOS e poi con Windows. Ciò sia per quanto concerne i dati personali, sia per quanto concerne la gestione degli stessi. Può star bene a molti l’accedere alla rete da un scatola vuota che costa una frazione del costo di un attuale PC. Ma se poi il mio terminale è veramente una scatola vuota, questa lascerà ancora meno possibilità di scelta all’utente, cioè a me, e metterà chi si offre gentilmente di conservare i miei contenuti di sindacare su questi. Il film che voglio vedere più tardi, la musica che voglio ascoltare, non risiederà più sul mio disco rigido -che scomparirà e quindi avrò il vantaggio di non dover comprare- ma in un luogo remoto, di proprietà di una società privata remota in grado, anche se magari qualche legge lo proibirà, di catalogare, analizzare, prevenire ogni mio desiderio.
Forse Writely sarà magari il Word -oltretutto gratuito- del futuro. Ma il suo monopolio potrebbe rivelarsi ancora più oppressivo. Alla fin fine Word, almeno, si può piratare.
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