Sono iniziati oggi i tre giorni di sessione speciale della Corte Interamericana per i Diritti Umani che in Cile giudicherà lo Stato messicano su uno dei casi di femminicidio più brutali avvenuti a Ciudad Juárez, alla frontiera tra il Messico e gli Stati Uniti.
La decisione di chiamare a rispondere il governo messicano da parte della Corte Interamericana per i Diritti Umani su quello che è ormai noto come il caso del “campo algodonero” (campo di cotone, nella foto), per il fatto che otto corpi di giovani donne torturate e uccise furono ritrovati tra le piante di cotone di un grande campo, in una zona ricca e centrale della città, segna un importante, primissimo passo per quel difficile e contrastato cammino verso la verità e la giustizia per i femminicidi di Juárez che iniziò sotto la spinta dei movimenti di donne e dei familiari di vittime ormai un decennio fa.
E’ grazie alla loro lotta, e nel caso specifico, grazie soprattutto alle azioni dell’Asociación Nacional de Abogados Democráticos AC (ANAD), al Comité de América Latina y el Caribe para la Defensa de los Derechos de la Mujer (CLADEM), alla Red Ciudadana de No Violencia y por la Dignidad Humana e al Centro para el Desarrollo Integral de la Mujer AC (CEDIMAC) che hanno sostenuto e appoggiato tre delle madri delle ragazze uccise nella loro richiesta di giustizia, che la Commissione Interamericana per i Diritti Umani a fine 2007 è stata portata a richiedere l’intervento della Corte.
Tra il 6 e il 7 novembre 2001 furono ritrovati 8 corpi di giovani donne con evidenti segni di tortura e violenze sessuali, alcuni dei quali in decomposizione. Le ragazze erano state probabilmente uccise in diversi momenti, durante i 6 mesi precedenti. Alcuni dei corpi sembravano essere stati tenuti in una cella frigorifera, per poi essere “seminati” in quel campo di cotone che si trova proprio di fronte a uno dei simboli della città: l’associazione delle maquiladoras (l’AMAC che si intravede nella foto), le fabbriche di assemblaggio che dagli anni ’70 hanno invaso la frontiera con gli Stati Uniti impiegando mano d’opera, nei primi anni soprattutto femminile, a basso costo.
Lo stato messicano verrà chiamato a rispondere della scomparsa delle ragazze e della loro morte, per non aver prestato protezione alle giovani donne in una città in cui, a novembre 2001 era già evidente la gravità e la ricorrenza di crimini di questo tipo. Verrà chiamato a rispondere per non aver prestato sufficiente attenzione alle denunce di scomparsa presentate dai familiari delle ragazze uccise e che, prese in tempo, avrebbero potuto impedire quei crimini. Verrà chiamato a rispondere per il susseguirsi di irregolarità e negligenze che hanno seguito il ritrovamento dei corpi, che vanno dalla falsificazione delle prove, alla loro cattiva conservazione, alle drammaticamente affrettate dichiarazioni sull’identificazione di alcune delle vittime che hanno confuso e illuso famiglie intere, alle indagini altrettanto frettolose che portarono, nel lasso di pochissimi giorni, all’incarcerazione di due conduttori di autobus, ritenuti presunti responsabili. Furono denunciate – e dimostrate – torture per ottenere le loro dichiarazioni e uno dei due morì in carcere due anni dopo a seguito di una banale operazione di ernia, così come morirono i loro avvocati, a pochi anni di distanza l’uno dall’altro, sotto i colpi di quel che i media mainstream definirono, non senza ambiguità, scontri tra narcotrafficanti e polizia.
Il fatto che la Corte abbia deciso di intervenire solamente sui casi di tre delle otto vittime del “campo algodonero”, a causa delle già segnalate irregolarità nell’identificazione delle vittime, permette una speranza solo a metà di capire fino in fondo una vicenda che non può non essere letta nella sua integrità. Gli otto corpi del “campo algodonero” insieme ad almeno un altro centinaio tra i quasi 500 femminicidi degli ultimi 16 anni, rispondono ad un modus operandi simile (colpire ragazze giovani, povere, spesso migranti, sequestrarle e sottoporle a torture, violazioni, mutilazioni, farle ritrovare in zone desertiche o semi-desertiche, abbandonate in campi anche centrali, ma che permettano di occultare almeno in parte i corpi) che, per la totale impunità in cui sono stati lasciati i crimini, deve fare pensare probabilmente non ad un unico gruppo o efferato serial killer ma ad una serie di persone e gruppi di persone che vengono (o furono) protetti, quando non direttamente appoggiati, dalle autorità. Insabbiamento di prove, incompletezza degli atti giudiziari, utilizzo della tortura per estorcere confessioni, “fabbricazione” di colpevoli, minacce ed attentati a giornalisti, avvocati, attivisti ed attiviste e soprattutto il totale disprezzo verso le vite delle ragazze e dei loro familiari, potrebbero per la prima volta essere riconosciuti, se pur in tre soli casi (i primi di una serie?), da un Tribunale di giustizia internazionale.
Non si può quindi non riconoscere l’importanza di queste giornate di sessione della Corte Interamericana che per la prima volta potrebbe lanciare un segnale forte sulle responsabilità gravi che lo stato messicano ha, ai suoi vari livelli, nei femminicidi di Juárez.