A Pechino Romano Prodi glissa le domande su Telecom ma riesce a dire: “Gianni Riotta piace a tutti”; come la Coca-Cola o Papa Wojtyla. A me invece Gianni Riotta non piace.
Non piace perché non mi piace la costruzione a tavolino di carriere fatta sulla supinità al potere supremo, dei soldi e dell’atlantismo, le uniche due entità che danno davvero legittimità nella nostra società. E se “fanno tutti così”, peggio. Gianni Riotta, denuncio, ha costruito la sua carriera ed è oggi diventato direttore del TG1, per un solo merito: per l’ossessiva riproposizione dell’assioma che gli Stati Uniti hanno sempre ragione (o che comunque ci hanno liberati nel 1945) e che il neoliberismo è il migliore dei mondi possibili.
Denuncio che Gianni Riotta -e quelli come Gianni Riotta- fanno un vanto di una doppia fedeltà da guerra fredda. Essere in quota centrosinistra va bene per far carriera, ma l’unica vera fedeltà che conoscono resta quella atlantica. Per capirci, un Riotta, da siciliano, e tantopiù per il peccato originale di essere cresciuto al Manifesto, se il 18 aprile avesse vinto il Fronte Popolare, avrebbe ricostituito l’EVIS insieme al bandito Giuliano e fatto della Sicilia il 51° stato dell’unione.
Sono sicuro che Gianni Riotta non sarà il megafono di Romano Prodi in Rai come Clemente Mimun, l’inventore del panino* lo fu per Silvio nostro. Anzi sono sicuro che Romano Prodi si beccherà molte -ma rigorosamente terziste- coltellate alla schiena da Riotta. E sorriderà subdolo ricevendo applausi che ne lodino l’indipendenza di giudizio. Ma sono altrettanto sicuro che in maniera molto più subdola sarà un giornalista brezneviano e un monumento al servilismo (come fu autorevolmente definito Mimun) in nome e per conto ed in difesa di qualunque cosa faccia il presidente americano di turno. E se tra due anni dovesse vincere le elezioni Hillary Rodham in Clinton, allora per Riotta sarà una festa. Immaginatevi quanto trinariciuti bisognerà essere per criticare una donna del Partito Democratico diventata presidente degli Stati Uniti. Per Gianni Riotta poi… il settimanale britannico Economist è addirittura “il migliore del mondo”. Che spreco di aggettivi. Non importa che l’Economist in questi anni abbia promosso e benedetto ogni guerra ed ogni privatizzazione nel terzo mondo che -per esempio in Argentina- ha causato i morti per fame. Se l’Economist è il miglior giornale del mondo allora per Riotta aveva ragione anche quando propagandava Carlos Menem, Fernando Henrique Cardoso o perfino i Chicago Boys pinochetisti, come artefici di presunti miracoli che ovunque applicati hanno invece lasciato fame, miseria e distruzione. Questo è l’universo di riferimento di Gianni Riotta. E Romano Prodi vorrebbe farmelo piacere? Non mi piace Riotta.
Riotta piace a tutti e per Riotta sono tutti buoni, perfino George Bush. Anzi soprattutto George Bush. Altrimenti non si diventa direttore del TG1. Tutti sono buoni salvo chi pone domande scomode e chi non lo può scomodare, come per esempio Hugo Chávez. Attaccare Chávez è un esercizio di durezza a basso costo che fa sempre comodo per mostrarsi integerrimi e vantare quattro quarti di nobiltà filoccidentale a prescindere. Riotta non è tenuto a ricordare il colpo di stato fondomonetarista dell’11 aprile 2002, ma può permettersi di definire Chávez “un despota”. A mia puntigliosa risposta (processi elettorali, inserimento sociale, missioni internazionali OEA, centro Carter…) mi degnò distrattamente di un “sì vabbé ma è a rischio…” Almeno Mimun non aveva idea di chi fosse Chávez. Riotta lo sa e di articoli -ovviamente solo in inglese- ne avrà letti almeno tre o quattro. Ma ha capito che a Bush è antipatico e proprio per questo lo considera a rischio, o meglio un rischio. Siccome Chávez non può causare alcun danno alla carriera di Riotta, Riotta lo può definire un despota.
Piace molto il termine “despota” a Riotta. Solo in materiale pubblicato in Internet lo avrebbe usato fino a 394 volte. Lo usa continuamente per definire Milosevic (66 volte), ma anche per Khomeini, per Castro, per Saddam Hussein e per… Chávez. A quelli come Riotta sfugge completamente la differenza tra Chávez e Saddam Hussein. Come del resto sfugge a Donald Rumsfeld per il quale Chávez è parte dell’asse del male latinoamericano insieme a (despoti?) Nestor Kirchner e Evo Morales.
Chissà mai perché Riotta invece non ha mai usato il termine despota per Tony Blair o José Maria Aznar, che hanno trascinato in guerra paesi con il 90% dell’opinione pubblica contraria, e chissà perché non definirebbe mai despoti neanche un Musharraf o un Moubarak o gli illuminatissimi re del Marocco o della Giordania. Ma Chávez sì… Povero Riotta, lui voleva solo far carriera…
Ancora desta scandalo ricordare che Bruno Vespa disse che la DC era il suo editore di riferimento. Ma adesso che al TG1 abbiamo un direttore che ha come editore di riferimento il governo degli Stati Uniti le cose sono migliorate? Parafrasando Francesco De Gregori: “tu non mi piaci in nessun modo e grazie al cielo io non piaccio a te”.
* dicesi “panino” quel sistema per il quale l’informazione politica in epoca berlusconiana era divisa in tre terzi. In primo luogo si presentava in un contesto solenne la posizione del governo, quindi si riferiva cosa pensava l’opposizione e infine si lasciava spazio alla maggioranza, che com’è noto nelle democrazie occidentali non ha nulla a che vedere col governo. In genere Schifani o Cicchitto o Nania, conoscendo incosa aveva detto l’opposizione, con una studiata battuta cercavano di ridicolizzarne il senso e il merito.