Michele Salvati: Ritorno a sinistra

new_deal La profonda recessione economica nella quale siamo incastrati dimostra che il modello di «sregolazione » — adottato e imposto dagli Stati Uniti a partire dagli Anni ’80 del secolo scorso e diffusosi in seguito in (quasi) tutto il mondo—non funziona bene. Funziona male, quanto meno, per il settore finanziario, la cabina di regia dell’intero sistema. Questa è ormai convinzione diffusa, accettata obtorto collo anche da coloro che fino a ieri sostenevano che le banche e le istituzioni finanziarie in genere sono imprese come tutte le altre e devono essere lasciate libere di scorazzare per il mondo e farsi concorrenza con il minimo impaccio regolativo, alla ricerca del massimo valore per i loro azionisti. Da questa convinzione segue che occorre impegnarsi — parlo sempre per il settore finanziario — in un poderoso sforzo di ri-regolazione, la cui intensità e i cui contorni sono delineati al meglio dalla «Turner Review» (A Regulatory Response to the Global Banking Crisis) presentata pochi giorni or sono al governo inglese da Lord Adair Turner, presidente della Financial Services Authority, e che costituirà uno dei documenti di base del prossimo G20.

Quale che sia la loro forma giuridica, banche e istituzioni finanziarie non sono imprese «come le altre»: gli Stati nazionali e le istituzioni internazionali devono vincolarle in un assetto regolativo più rigoroso di quello imposto al settore reale. Le stesse banche centrali e i ministeri dell’Economia— soprattutto la Federal Reserve e il Tesoro americani, che regolano la principale moneta di riserva mondiale — devono seguire indirizzi assai più cauti di quelli che hanno consentito, se non provocato, la irrational exhuberance del recente passato. Un’esuberanza che ha travolto l’intero sistema. Quale occasione migliore per la sinistra? La sinistra — e mi riferisco ovviamente alla sinistra riformista, alla sinistra di governo — non ha forse sostenuto da sempre che il mercato può creare disastri e va strettamente regolato dallo Stato? In particolare, e più di recente, non ha forse criticato come eccessivi, dannosi e forieri di ingiustizia il neo-liberalismo e la deregolazione che hanno dominato in questi ultimi trent’anni?

Non dovrebbe allora disporre di buone credenziali per convincere gli elettori, duramente colpiti dalle conseguenze della crisi, che ha le carte migliori per governare questa fase? Sfortunatamente per la sinistra, le cose non stanno proprio così e, anche se così stessero, il successo elettorale dipende da fattori assai più numerosi e complicati che non il semplice posizionamento dal lato del mercato o da quello dello Stato dei principali partiti che competono per il governo. Le cose non stanno così perché una buona parte del centrosinistra europeo — il partito laburista di Tony Blair e Gordon Brown, la Spd ai tempi di Schröder, il Psoe di Zapatero, correnti significative dei partiti socialdemocratici di altri Paesi e, da noi, dell’Ulivo e poi del Pd—negli ultimi dieci anni si è spostata parecchio verso il lato del mercato, e non sarebbe difficile trovare espressioni di alcuni leader del centrosinistra, e dei loro consiglieri, che esaltano i fasti di questa istituzione con l’entusiasmo che solo un neofita può provare.

In altre parole, buona parte del centrosinistra è stata presa in contropiede dalla crisi, proprio mentre stava attuando una svolta liberale per molti aspetti benemerita, ma che le impedisce di presentarsi in modo univoco come partito dei critici del capitalismo, come partito della regolazione e dei controlli, lasciando al centrodestra la (oggi) scomoda posizione di partito del laissez faire, ostile all’intervento dello Stato. Ma il centrodestra europeo è poi veramente composto da partiti che sostengono il laissez faire e sono contrari all’intervento dello Stato? Basta pensare a Sarkozy e Merkel e, da noi, a Fini e a Tremonti, per dare una risposta negativa a questa domanda. Gran parte dei partiti appartenenti a quest’area dello spettro politico, accanto ad una debole componente liberale, dispongono di una robusta componente tradizionalistica— per intenderci, Dio, Patria, Comunità, Famiglia — che si presta molto bene ad essere giocata in tempi di difficoltà e paure: i politici più abili la giocano su piani e con toni diversi — Tremonti non è Bossi — ma indubbiamente con molta efficacia.

Se tutto ciò è vero, ne segue che la grande crisi in cui siamo immersi difficilmente può essere usata come arma elettorale di uno schieramento progressista e quando lo è stata — nel caso degli Stati Uniti — essa si è limitata a rafforzare la posizione dello sfidante Obama contro il rappresentante del partito di un presidente in carica profondamente impopolare. La sinistra liberal, la sinistra «presa in contropiede», si riunirà questo fine settimana in Cile—per il Pd italiano ci saranno Franceschini, Rutelli e Fassino — e i toni dei materiali preparatori dell’incontro non sembrano proprio quelli del «avevamo ragione noi» o del «una gloriosa stagione ci attende». Se vuole tornare a vincere, è probabile che il centrosinistra, se è all’opposizione, debba sfruttare in questa fase gli errori e l’impopolarità dei governi o argomenti locali, diversi da Paese a Paese. Una strategia unificante, com’è stata quella della Terza Via di Tony Blair e Tony Giddens alla fine degli anni ’90, sembra al momento fuori dalla sua portata.

Michele Salvati

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