Un pezzo bellissimo dalla Colombia dell’eccellente Stella Spinelli di Peacereporter
Il centro di Toribio è oscurato da una fitta pioggia che cade incessante da ore. Il mercato del sabato mattina però non si è lasciato intimidire, irresistibile richiamo per centinaia di donne, intente a scegliere tra frutta, verdura e pezzi di selvaggina appesi alle bancarelle arrangiate in mezzo alla piazza. L’unica, in quel paese arrampicato sulla selva, fra le verdi montagne della cordigliera centrale. Siamo a tre ore di strada da Cali, capitale della valle del Cauca, stato sud-occidentale della Colombia. Quassù si arriva soltanto a bordo dell’affollata chiva, autobus tipico dell’America andina. Tutto aperto, privo di vetri e di sportelli, è un grande pullman colorato, con luci a intermittenza sul cruscotto e fronzoli appesi ovunque. A suon di salsa e vallenato, si arrampica per ripidi pendii, grazie a un motore potentissimo che trascina con sé persone, animali e merci. Fa la spola due volte al dì con Sant’Ander de Quilichao, cittadina di 80mila abitanti, ubicata sulla Panamericana, fra Popoyan e Cali.
Siamo nel cuore del territorio indigeno Nasa, 120mila persone che basano la loro esistenza sulla ricerca dell’armonia fra uomo e natura, rifiutano ogni forma di violenza e pretendono di salvaguardare la loro cultura ancestrale, imponendosi però un costruttivo rapporto con la contemporaneità.
In queste terre la Colombia veste accessori di una tradizione millenaria, parla nasayuwe e saluta con un ewcxa al posto dell’allegro hola castigliano. La gente è piccola di statura e ha la pelle color nocciola. Occhi fieri e luminosi.
Arquimedez Valez, sindaco di Toribio. Foto di Matt Shonfeld"Bevenvenuti nel risguardo indigeno di Toribio, comune colombiano a maggioranza Nasa". La stretta di mano del sindaco Arquimedez è forte e gentile allo stesso tempo. Ci viene incontro scendendo le scale degli uffici comunali. Capelli brizzolati, indossa una giacca di pelle nera e pantaloni bianchi. Dalla tasca sinistra fa capolino l’antenna dell’Avantel, radiotrasmittente che il governo colombiano impone a chiunque sia sotto minaccia di morte. E’ il segnale, il primo incontrato finora in questa curiosa cittadina: la guerra è anche qui. Il conflitto interno che insanguina il paese da oltre 40 anni è piombato anche sui pacifici Nasa. Poco più su, fra la fitta vegetazione che fa da cornice al centro del paese, sono operativi centinaia di guerriglieri delle Forze armate rivoluzionarie della Colombia (Farc). A pochi passi da noi, invece, una base militare made in Usa si erge bianca e squadrata fra le umili case. Se poi lo sguardo si fa più attento e penetra la nebbiolina bagnata che tutto opacizza, la realtà emerge nella sua tragicità. Vicino alla base di esercito e polizia, i muri delle abitazioni sono crivellate da fori di pallottola.
"Sono i segni di un tragico giorno di aprile di un anno fa – irrompe la voce di Arquimedez, stimolata dalle nostre espressioni turbate – Era giovedì 14, e la guerra arrivò fin dentro le nostre case. Le trincee erano proprio qui, nella piazza del mercato. E là, fra le due case dagli angoli scalcinati. Cercammo di mettere in salvo tutti. Siamo 3500 qui, nell’area urbana. Fu un fuggi fuggi generale. Ma un uomo morì e anche un bambino. Aveva solo otto anni. E quanti feriti".
Poi un sospiro e un gesto della mano, come a raccogliere le gocce di pioggia. "Oggi piove e tutto tace, altrimenti il rincorrersi degli spari nella selva è il sottofondo quotidiano in questa calda estate. Là si sparano ogni giorno. L’area urbana, invece, adesso la rispettano". Le sue parole non tradiscono paura, né insicurezza. Tutto sa di controllata normalità. "Abbiamo imposto a guerriglieri e soldati un alt duro, irremovibile, ribadendo la nostra attiva neutralità. La nostra autonomia. Ma la guerra non guarda in faccia nessuno, e siamo noi a farne le spese, noi che stiamo dall’unica parte giusta in questa guerra: con la pace".
Muro distrutto. In fondo la base Usa. Matt ShonfeldSeguendo il tono vivace delle sue parole, ci addentriamo nella filosofia Nasa. Con un lungo discorso interrotto dai cordiali saluti dei passanti, semplici concetti introducono il diritto alla vita quale principio fondante della loro strategia di pace, in un paese in guerra. "Resistiamo contro chiunque non rispetti la nostra cultura. La nostra forza sta nell’unità, nella condivisione, è il Minga, el compartir. Nella lingua nasa non esistono parole di offesa, ma siamo disposti alla morte pur di difendere la nostra identità. Crediamo fermamente nella forza del dialogo. E’ la parola la nostra arma. E’ così che ci facciamo rispettare da chi ha scelto le armi e la morte". Stiamo passeggiando su e giù per Toribio. Il racconto si fa personale. "Ho 38 anni e 2 figli. Sono sindaco da due anni. Mi sono formato nel Cric, l’associazione indigena che negli anni Settanta ha preso in mano le redini della riorganizzazione Nasa e del riscatto delle terre ancestrali, strappateci nei secoli da bianchi proprietari terrieri forti di improbabili diritti di proprietà. Finora ci siamo ripresi 191mila ettari, occupando pacificamente e appellandoci alla giustizia. Siamo vicini a ottenere l’intera proprietà che la Corona spagnola ci riconobbe. Siamo coltivatori. Curiamo la terra, la rispettiamo. Per noi è sacra. Non siamo contaminati dallo spirito del guadagno. Siamo gente tranquilla e semplice. Il nostro obiettivo è la felicità, che per noi è vivere armonicamente e in pace con tutti".
Bastone della pace. Foto di Matt ShonfeldE’ orgoglioso di poterlo dire, ma precisa: "Questo nostro cammino è lungo e doloroso. Stiamo tenendo testa a una guerra. Tanti amici sono morti strada facendo, uccisi da uno Stato che non accetta la nostra posizione e che troppo spesso ha tentato di additarci quali filo-guerriglieri, quindi da sterminare. In realtà – precisa – è il nostro territorio ricco di acqua, oro, marmo, biodiversità che ci rende tanto scomodi. Il potere economico è pronto a divorare risorse e speranze – poi, sarcastico – Figurarsi che sono stato persino rapito dalle Farc, altro che filo-rivoluzionario. E’ passato un anno e mezzo ormai, ma è importante che lo sappiate per capire come vive la Colombia. Non c’è libertà, siamo schiavi in casa nostra. La violenza ci tiene in scacco. Ogni movimento, pensiero, parola possono condurti alla morte. La gente vive fra due fuochi e con poche alternative: piegare il capo o farsi rispettare. Ma per farlo non puoi essere solo. Chi è solo in questo paese muore". Nell’agosto 2004, dunque, mentre il neo eletto sindaco di Toribio viaggiava per il Caquetà, 700 chilometri a sud del Cauca, area ad alta presenza guerrigliera, venne rapito. "Lei è sotto sequestro in nome della legge rivoluzionaria 2000, mi dissero, in base alla quale chiunque sia eletto e non rinuncia, diventa automaticamente complice di un sistema politico da abbattere, e quindi un nemico", l’espressione del sindaco, adesso, si fa seria, il tono cupo.
Alfredo Acosta, capo delle guardie indigene. Foto di Matt ShonfeldAl suo fianco cammina, ormai da un po’, un giovane indios alto e affascinante, che tiene nella mano destra un bastone ornato da nastri colorati. Resta in silenzio, ascoltando. Arquimedez prosegue, guardando verso la selva, inospitale rifugio di quella prigionia: "Fu orribile. Trascorsi giorni interi camminando, scortato da due uomini in mimetica. Più il tempo passava, più la libertà si allontanava. Ero distante, troppo, dalla mia terra, dalla mia gente. Temevo che la notizia del mio sequestro non arrivasse abbastanza in fretta". In quel periodo Toribio, adesso presieduto da centinaia di soldati e poliziotti, era direttamente controllato dalle Farc. Erano la forza pubblica, infiltrati nei gangli lasciati scoperti dello Stato assente. "Il comandante Farc della zona del Cauca mi conosceva – spiega Arquimedez – I suoi uomini avevano l’ordine di rispettare i Nasa. C’era una sorta di mutua sopportazione, che stava producendo una relativa tranquillità. Quel mio sequestro per mano di un altro battaglione, di cameradas lontani centinaia di chilometri, stava facendo rischiare alle Farc del Cauca una vera e propria rivolta Nasa. Eppure, era nel loro interesse convivere decentemente con la mia gente. Mi appellavo alla logica, per vincere la paura. Ma il pensiero che sono oltre tremila i politici in mano alle Farc da anni, risuonava assillandomi. Poi lo scacciavo con rabbia". La notizia impiegò due settimane per percorrere 700 chilometri. L’esercitò captò per caso una conversazione radio della guerriglia. Toribio si infervorò. In poche ore la guardia indigena, organo preposto alla difesa della gente e del territorio, fu pronta a marciare sul Caquetà, "armata – sorride Arquimedez – di un bel bastone colorato, simbolo di non violenza e resistenza disarmata. Si proprio quello lì", aggiunge indicando la mazza di legno tenuta regalmente dal giovane bruno. E’ Alfredo Acosta, coordinatore generale della guardia indigena, che prende il testimone dal suo sindaco e prosegue nel racconto.
Guerriglieri del blocco Magdalena Medio delle Farc. Foto di Matt Shonfeld"Eravamo trecento. Marciammo per due giorni. Una volta individuata la zona del rapimento, cominciammo a far pressione su ogni pattuglia delle Farc che incontravamo nella selva. Uniti e caparbi, chiedemmo la sua liberazione. Avanzammo compatti, armati solo del coraggio che proviene dalla consapevolezza di essere nel giusto. Per giorni non mollammo. E pian piano altri Nasa si aggiunsero – racconta gesticolando, sguardo perso nel glorioso ricordo – Diventammo seicento". E le Farc non ebbero scelta. "Ero libero", sospira il sindaco.
Da allora, assieme all’università autonoma, ai progetti di sviluppo sostenibile e ai consigli comunitari preposti al rispetto della legge ancestrale, anche la guardia indigena è fiore all’occhiello della società Nasa, parte integrante del Plan de vida, una sorta di manifesto programmatico che ogni singolo abitante segue e persegue, per una vita migliore. "Non abbassiamo mai la guardia – conclude Alfredo – abbiamo piani di emergenza pronti a scattare per ogni ‘resguardo’. Studiando mosse e contromosse della guerriglia e dell’esercito, valutiamo il livello di sicurezza dei nostri territori e, se necessario, trasferiamo tutti gli abitanti dalle aree più tranquille, in attesa che torni la calma". E’ dunque in un’impeccabile organizzazione che sta la proverbiale saggezza Nasa, che ha valso a questo popolo premi nazionali e internazionali per la pace? In realtà, i Nasa hanno un segreto. Un alleato speciale, insostituibile: la loro cieca fiducia nel mito. In questi giorni in cui tutto sembra presagire l’ennesima battaglia; in cui le Farc, appena sopra le loro teste, sono intente a schierare frentes operativi per sferrare colpi mortali all’esercito; i leader Nasa si rifugiano nella cosmogonia. "E’ così che manteniamo la pace nei nostri cuori e l’armonia nelle menti", sussurra Ligna Pulido, una giovane Nasa che ci ha appena raggiunti. "E’ una laguna situata a oltre tremila metri di altezza la fonte della saggezza antica – racconta, mani giunte, voce dolce, delicata – Si narra che una stella, innamoratasi di quello specchio d’acqua cullato dalla selva, vi abbia intinto una punta, generando il primo Nasa. Ed è qui che sempre torniamo. Anche stanotte – confessa Ligna – Data l’emergenza incombente, alcuni di noi cammineranno per ore nella fitta foresta, scortati dal medico tradizionale che leggerà e interpretarà i segni della natura. Raggiunta la madre laguna, mediteremo e, immergendoci nelle sue acque, le chiederemo protezione per affrontare l’ennesima battaglia. Poi l’attesa. Sarà per mezzo del tuono che il responso arriverà. E con la consapevolezza del futuro ci prepareremo ad affrontare il nostro destino. A testa alta. Uniti".