Propongo una riflessione di Massimo Mantellini sul diritto a non perdere i propri contenuti quando un blog viene chiuso dall’editore. Si riferisce al caso di Stefano Bonilli licenziato in tronco dal Gambero Rosso del quale era stato fondatore 22 anni fa. Aggiungo una riflessione personale sul rischio della comunicazione interstiziale tra il personale e il tradizionale. Il blog è mio e me lo gestisco io, ma se mi appoggio a un editore, che magari mi paga proprio per fare comunicazione personale, quella comunicazione resta personale?
Roma – Internet è un posto strano. Nel quale evidentemente sono possibili cose che nel mondo reale ci sono precluse. Per esempio è possibile cancellare le tracce digitali di quanto accaduto in passato sperando che nessuno se ne accorga. Ci si lamenta spesso, talvolta a ragione, della grande scia di informazioni che ognuno di noi lascia dentro la grande rete durante la propria presenza online e non ci si ricorda mai della facilità con cui alcune di queste “testimonianze” possano essere azzerate senza sforzi con un unico click.
Pensavo questo quando ieri leggevo la mail inviatami da Stefano Bonilli, fondatore ed anima del Gambero Rosso che è stato improvvisamente licenziato ed allontanato dalla azienda che ha creato. Bonilli è stato in questi anni anche un blogger, ha aperto il sito web del Gambero Rosso ad esperimenti di aggregazione dei contenuti molto interessanti come il Social Space, dove chiunque scriva in rete di vino e cucina può andare ad aggregare i contenuti delle proprie pagine, e soprattutto ha usato il proprio spazio personale online in maniera trasparente e personale. Nel momento del suo licenziamento il Papero Giallo, il blog sul quale ha scritto negli ultimi anni, è stato oscurato dall’editore e gli archivi cancellati.
Accanto alle tracce indesiderate che rimangono oltre la nostra volontà esistono anche tracce della propria presenza in rete, magari anni di contenuti che i nostri lettori hanno trovato utili ed interessanti, che vengono improvvisamente eliminati d’imperio in spregio ad ogni attenzione nei confronti dei lettori.
In questo atteggiamento molta editoria professionale sbarcata in rete sembra essere capace di dare il peggio di sé. Del resto l’idea stessa di “proprietà dei contenuti” in rete è qualcosa di assai vacillante ed indistinto: l’assioma che gli editori si trascinano dai tempi della “carta”, quello secondo il quale le parole che compongono i loro quotidiani, settimanali, mensili, sono state “acquistate” dai giornalisti che le hanno composte ed in quanto tali sono nella loro completa ed insindacabile disponibilità, una volta trascinata in rete diventa una idea semplicemente senza senso.
È evidente che il rapporto fiduciario fra l’editore e il giornalista può andare incontro a qualsiasi tipo di erosione fino ad interrompersi, ma la memoria di quanto è stato fatto in passato, può essere semplicemente eliminata dalla rete? Cancellare improvvisamente tutto l’archivio di un blog, come è accaduto nel caso di Bonilli ma come già più volte è avvenuto in passato per esempio al Gruppo Espresso dove blog di alcuni giornalisti (l’ultimo caso quello di Pino Nicotri) sono stati chiusi d’autorità dall’editore, non è la semplice dismissione delle copie cartacee invendute di un numero che non ci è piaciuto, è l’interruzione di una grande conversazione che esula in parte dal dominio dell’editore stesso. Con quale faccia per esempio si sceglie, nel momento in cui si cancellano gli archivi di un blog, di cancellare contemporaneamente tutti i contributi che i lettori hanno lasciato da quelle parti? Per quale ragione si sceglie di danneggiare prima di tutto se stessi, togliendo dalla disponibilità dei lettori anni di contenuti interessanti solo in nome di un rapporto professionale nel frattempo interrotto?
È un misto di arroganza ed ignoranza che spinge il mondo editoriale verso scelte del genere. Uno scarso rispetto per i propri lettori ed una presunzione vecchia ed ancora dura a morire: quella di essere non solo amati creatori ed assemblatori di contenuti ma anche di esserne i soli definitivi proprietari anche dopo aver mandato tali contenuti in distribuzione.
Forse ci sono editori che vivono come un’onta il tradimento o la sopraggiunta incompatibilità nei confronti di alcuni propri dipendenti tanto che, se fosse stato possibile, in passato avrebbero forse mandato qualcuno in giro per le emeroteche a “sbianchettare” le vecchie copie di archivio dei quotidiani sui quali erano apparsi gli scritti della firma traditrice. Oggi molti di loro con Internet spingono volentieri il tasto “erase” consegnando all’oblìo milioni di parole in un unico istante e consegnando a noi stessi una evidente dimostrazione di quanto grande e forte sia la loro voglia di interazione e bidirezionalità in rete.
Verrebbe quasi da proporre al Garante della Privacy un provvedimento al contrario rispetto alla famosa teoria del diritto all’oblìo di cui Pizzetti parlava mesi fa riferendosi alla antipatica tendenza di Google di “ricordare troppo”: lo si potrebbe chiamare “diritto alla memoria”. Una forma di necessaria tutela delle parole finite dentro la rete che una volta rilasciate sul web vadano considerate per quello che sono: un patrimonio di tutti non più grossolanamente editabile.
PS: Di questo ed altro Stefano Bonilli scrive qui.