La farsesca aggressione del mainstream contro gli economisti che hanno ritenuto di esercitare il loro diritto di critica per la nomina di Carlo Stagnaro e altri estremisti neoliberali a consulenti di Mario Draghi per il PNRR, punta alla delegittimazione dei firmatari tirando in ballo tutto il peso della storia degli anni Settanta, che non ha nulla a che vedere, ma vale qui la pena di rammentare.
Cosa accomuna la grande architetta Gae Aulenti all’autore di “Se questo è un uomo” Primo Levi o a Umberto Eco, Federico Fellini, Giulio Einaudi, Natalia Ginzburg? O lo psichiatra Franco Basaglia, Mario Soldati, Norberto Bobbio, Pier Paolo Pasolini, Natalino Sapegno, Giorgio Bocca, e altre centinaia (757) di specchiati e grandi italiani? Il 13 giugno 1971, a ben guardare esattamente 50 anni fa, firmarono una lettera al settimanale L’Espresso con la quale si denunciava l’oscena impunità per la defenestrazione dell’anarchico Pinelli dalla Questura di Milano dopo la Strage fascista di Piazza Fontana, e se ne incolpava tra gli altri il sinistro questore Michele Guida e il commissario Mario Calabresi. La lettera, vale la pena essere chiari, era sbagliata nel merito e nel linguaggio, rispondendo al clima di quegli anni, ma incarnava la necessità civile di scoperchiare la fogna dell’impunità degli apparati dello Stato che caratterizzava l’Italia di quegli anni, e continua a caratterizzarla, come per esempio nel 2001 a Genova.
Con l’assassinio del Commissario Calabresi nel 1972 fu infatti teorizzato un “nesso causale” tra lettera e omicidio, trasformato presto in dogma indiscutibile. Per il teorema del “nesso causale” (Giampaolo Pansa fu tra i più attivi, col consueto ribaltamento della realtà da lui operato più tardi anche sulla Resistenza) Gillo Dorfles o Cesare Musatti, Folco Quilici o Nanni Loy, avevano armato la mano al sicario ed erano fiancheggiatori degli assassini. Sebbene accusare Primo Levi o Federico Fellini di essere mandanti morali dell’omicidio Calabresi fosse aberrante (equivalente ad accusare Ugo Tognazzi di essere il capo delle BR), è esattamente quello che è successo in Italia infinite volte nell’ultimo mezzo secolo allo scopo di delegittimare l’espressione di pensiero critico e marginalizzare gli intellettuali engagé. Come ovvio Calabresi non fu ucciso né da Cesare Zavattini né da Margherita Hack, ma dai suoi assassini. La mano del sicario (condannato) Ovidio Bompressi fu armata dall’IMPUNITÀ per l’omicidio Pinelli, che la lettera denunciava, in anni nei quali i crimini dei corpi repressivi venivano sistematicamente coperti, negati, o trasformati in suicidi o in fantomatici “malori attivi” come accadde per Pinelli.
Torniamo a oggi: è ben evidente che non vi sia alcun nesso tra le tragedie degli anni Settanta e una consulenza a Palazzo Chigi a tal Carlo Stagnaro. Evocare la violenza politica è semplicemente infondato. Chi scrive (non ho firmato la lettera) è stato colpito dalla mole di editoriali indignati, palesemente coordinati, accorsi in difesa del vincitore, un dogmatico difensore di quello che Ignacio Ramonet chiamava “pensiero unico” neoliberale, negli anni difensore dell’industria delle armi, di quella del tabacco, negazionista sul cambio climatico e chiamato a giudicare sul PNRR come espressione, secondo un’altra lettera della Società Italiana di Economia, dei maschi bianchi settentrionali che non possono (più), secondo la SIE, rappresentare in via esclusiva gli interessi di tutto il paese, per esempio delle donne o del Mezzogiorno. Se la lettera degli economisti e quella della SIE andavano nel merito, e muovevano delle legittime critiche alle competenze e alla figura di Stagnaro, la reazione non si preoccupa affatto del merito. Furiosa e ripetitiva ritira per la millesima volta fuori dal cassetto la lettera all’Espresso di mezzo secolo fa: oggi come allora gli intellettuali (ovviamente definiti “comunisti”), non possono criticare la nomina perché starebbero armando la mano al sicario.
Nel fastidio che si spinge fino a negare il diritto di critica, e nella strumentalità di associare la critica alla violenza, mi sembra che vi sia una sola continuità. Quello che non cambia mai in Italia, dal culturame di Scelba ai giorni nostri, è lo stesso odio viscerale che le classi dirigenti, soprattutto economiche, e i loro sicari informativi, che hanno eletto il profitto a principio morale e la disuguaglianza a stato di natura, hanno per l’intellettuale impegnato. Questo in genere, almeno nell’accezione classica, viene ridicolizzato se non demonizzato, per il non avere motivazioni utilitaristiche ma di sensibilità per la condizione umana. Ancora si permette di firmare stantii appelli per gli indigeni colombiani, per i raccoglitori di pomodori in Puglia, o per criticare una nomina del governo Draghi, proprio come un tempo chiedeva giustizia per Pino Pinelli. Il problema infatti non è l’indimostrabile nesso causale che accusava Natalia Ginzburg della morte di Mario Calabresi, ma la causa di giustizia per Pinelli. E qui sì, si capisce perfettamente perché tra uno Stagnaro e Primo Levi le élite staranno sempre dalla parte del primo.