Zero o quasi spazio sui giornali italiani ed europei sulle importantissime elezioni presidenziali di oggi in Bolivia, che tornano a contrapporre, in maniera fin troppo schematica, due visioni antitetiche di America Latina. Da una parte la sinistra: integrazione regionale e riduzione delle disuguaglianze. Dall’altra la destra: indifferenza alla povertà, privatizzazioni, indebitamento e inserimento subalterno nel sistema mondo dato solo dall’eterno export di materie prime, che nel caso della Bolivia vogliono dire il litio, il motore delle batterie del XXI secolo. Riuscirà la sinistra integrazionista, che fu di Evo Morales e oggi candida Luís Arce, a vincere al primo turno, o le destre imporranno il ballottaggio?
Rispetto al silenzio di oggi, un anno fa, al momento del golpe di estrema destra, che mise fine a 13 anni di governo di Evo Morales, giustificato da finti brogli elettorali, in troppi (anche in Italia) sproloquiavano e si spellavano le mani, contenti solo che avesse fine l’anomalia di un governo presieduto da un indigeno aymara. Quel colpo di stato, giova ricordare, fu legittimato dal ruolo dell’Organizzazione degli Stati Americani (OEA, l’istituzione emisferica da sempre controllata dagli USA), dal sistema mediatico mainstream, dall’Europa e da mostruosi interessi economici, a partire da quelli di Elon Musk, il miliardario padrone di Tesla, che lo rivendicò apertamente per i suoi interessi nell’estrazione del litio.
Si vota oggi, come nel 2019, per eleggere il presidente, 36 senatori e 130 deputati. Nel caso il più votato prenda tra il 40 e il 49% dei suffragi, questo vince al primo turno solo se ha più del 10% di vantaggio sul secondo. È ciò che accadde nel 2019 quando Evo Morales del MAS (Movimento Al Socialismo), sinistra, vinse con più del 10% dei voti di scarto (47,1% contro il 36,5 di Carlos Mesa). È un margine enorme in qualunque elezione al mondo, ma che fu negato da false accuse di brogli e da un rapporto falso, scritto ad arte dall’Organizzazione degli Stati Americani di Luís Almagro, come ripetutamente dimostrato da più autorevoli studi. Era un rapporto evidentemente preordinato e presentato a scrutinio ancora in corso, quando ancora mancavano i risultati delle zone rurali, favorevoli al MAS, volto a pretendere di imporre il ballottaggio prima e legittimare il golpe poi. Vi è una denuncia formale da parte del Premio Nobel per la Pace, Adolfo Pérez Esquivel, e di centinaia di associazioni per i diritti umani, che accusano Almagro di essere il primo responsabile del colpo di stato e di tutte le violazioni dei diritti umani commesse quest’anno in Bolivia. Mesi dopo sia il “New York Times” che il “Washington Post” si scusarono per aver dato credito alle false accuse di brogli (ma lo stesso non hanno ritenuto di fare i media italiani). Per tutta risposta Almagro diede al quotidiano newyorkese del “giornale castrista” (sic). Il tutto, i falsi brogli e le altre fantasiose accuse di corruzione e di violazioni di diritti umani contro Evo Morales, erano però nel frattempo servite a legittimare le violenze dell’estrema destra (rappresentata va da sé come “società civile”), il ribaltamento del risultato delle urne, con la sedizione di parti delle forze armate e il tradimento della polizia.
La Bolivia arriva alle elezioni con una crisi di consenso, di legittimità delle istituzioni, aggravate dalla gestione del Covid19 da parte di Áñez. Proscritto Evo Morales, in esilio a Buenos Aires e accusato di qualunque cosa (oltre 150 capi d’accusa, con una fantasia degna di miglior causa), con l’Interpol che rifiuta di arrestarlo perché le accuse sono considerate palesemente politiche (il “lawfare”, la guerra giudiziaria, è una pratica sistematicamente usata contro i politici di centro-sinistra latinoamericani, da Lula a Rafael Correa), la sinistra candida oggi Luís Arce, un economista che è stato ministro dell’Economia di Evo fin dal 2006 e autore delle politiche redistributive dello Stato Plurinazionale e del grande auge di un paese cresciuto sistematicamente come mai nella sua storia. Il ticket vede come vice David Choquehuanca, anch’egli storico ministro degli Esteri di Evo, originale, brillante pensatore di una America Latina dove le gerarchie coloniali siano superate, e tra i principali costruttori della nuova Bolivia come stato che superasse l’impalcatura razzista e la subalternità dell’elemento indigeno. Piaccia o no, il ticket Arce-Choquehuanca è in totale continuità con la cultura politica integrazionista di Evo Morales e i risultati ottenuti da quel governo.
Come nel 2019 gli si contrappone Carlos Mesa, un conservatore colto, giornalista televisivo educato in Spagna, che fu presidente dal 2003 al 2005, quando era vice di Sánchez de Lozada, che dovette dimettersi dopo aver fatto assassinare oltre 80 persone nella cosiddetta “guerra del gas”, la privatizzazione degli idrocarburi imposta dal Fondo Monetario Internazionale, e che fu un momento fondamentale di accumulazione di forze per il Movimento Al Socialismo diretto da Evo Morales. Mesa in questo anno ha lasciato prudentemente fare l’estrema destra, assumendo un basso profilo, e ora tenta di riprendersi la scena per apparire, in particolare alle classi medie bianche, come il meno peggio e l’uomo che -infine- rappresenta il centro contro (presunti) opposti estremismi.
Onde evitare la vittoria al primo turno di Arce, due candidati non minori di destra si sono ritirati nelle ultime settimane. Dopo un lungo tira e molla (aveva inizialmente giurato di non candidarsi) si è ritirata la presidente di fatto Jeanine Áñez, senatrice autonominata perché nessuno di più alto in grado volle legittimare il golpe, che ha governato per un anno senza alcuna rispettabilità né consenso, a partire dai due massacri di Senkata e Sacaba, con oltre 35 morti, il giuramento sulla bibbia e l’odio per la Wiphala, la bandiera dei popoli nativi. Con lei ha fatto un passo indietro, rinunciando alla candidatura, anche Tuto Quiroga, altro neoliberale e violatore di diritti umani, che parla a stento spagnolo e presidente nel 2001 come erede diretto dell’ex-dittatore Hugo Banzer. Con i due ritiri l’estrema destra si coalizza così intorno a Luís Fernando Camacho, quarantenne rappresentante delle zone ricche di Santa Cruz, fondamentalista religioso, animatore delle proteste violente che portarono al colpo di stato nel 2019 e alla rinuncia del presidente legittimo Evo Morales.
Le mobilitazioni del campo democratico non si sono mai fermate in questi mesi ma la maggior parte degli avanzamenti, in particolare delle classi popolari, raggiunti nei 13 anni precedenti (con l’economia che aveva sempre superato il +4% annuo di crescita), è evaporata, tornando a crescere povertà e precarietà e il paese è tornato a pietire prestiti internazionali come con Evo aveva smesso di fare per la prima volta nella storia.
I sondaggi danno la situazione esattamente al punto di un anno fa. Luís Arce è in vantaggio di circa 10 punti su Carlos Mesa a testimoniare che il MAS sia tuttora il centro del sistema politico boliviano. A seconda se dovesse stare sopra o sotto questo margine entrambe le parti potrebbero addebitare alla controparte dei brogli, e destabilizzare ulteriormente un paese che per 13 anni ha vissuto il periodo di gran lunga più stabile e di auge della bicentenaria storia boliviana. Un vero malfattore come Luís Almagro, espulso per indegnità dal suo partito, il Frente Amplio in Uruguay, è pronto a ripetere i giochi del 2019. Ovviamente il progetto delle destre, che mai hanno accettato di essere governati da un aymara, e non si fanno problemi a usare il discorso razzista di sempre usato in questi anni contro Evo Morales, è portare al ballottaggio Mesa. Ma hanno anche bisogno di un buon successo di Camacho, che potrebbe superare il 10%, per poi mobilitare l’elettorato più a destra, vincere il ballottaggio e poi condizionare dall’estrema un eventuale governo Mesa. Se ballottaggio fosse, sarebbe davvero voto a voto. Anche nel campo democratico la tensione è altissima, lo scorso anno furono enormi gli sforzi per non cadere nella trappola della violenza utile alle destre. Purtroppo non è affatto detto che andrà tutto bene.