Da Battaglia al recentissimo di Flores e Franzinelli (due monografie separate da quasi 60 anni) il fantomatico silenzio degli storici di professione sulla Resistenza non è mai esistito. Lo stesso si può dire per la Repubblica di Salò, da Deakin a Ganapini.
Sono centinaia i lavori seri sulla Resistenza prima e dopo quello di Claudio Pavone (Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri) del 1991 che fu un vero turning point interpretativo, in particolare intorno al concetto di guerra civile. Fa amaramente sorridere che ancora oggi si accusino gli storici di aver taciuto sui presunti crimini della Resistenza. Fu invece sui crimini dei nazifascisti che calò il silenzio del doppio stato e dell’alleanza con la Repubblica Federale Tedesca, occultando i documenti sulle stragi, non per nasconderle agli storici, ma per favorire l’impunità dei colpevoli, come attestò l’armadio della vergogna scoperto da Giustolisi. Paradossalmente è proprio sulle stragi nazifasciste che gli storici sono arrivati più di recente (pensiamo al lavoro di geolocalizzazione di Paolo Pezzino).
Tali studi, che hanno visto impegnati centinaia di studiosi, si sono scritti e pubblicati nel corso del divenire della nostra Repubblica, dove gli storici hanno vissuto, studiato e si sono interrogati costantemente su quei fatti dal loro (nostro) presente. Non furono gli storici ad essere in ritardo sulle interpretazioni della Resistenza. Fu semmai la politica a costruire narrazioni che, una volta abbattute, hanno favorito la costruzione di paradigmi contrari alla Resistenza. Per esempio ritroviamo ciò nell’ideologia della guerra di Liberazione come guerra di popolo e non come guerra civile, alla quale è stato facile contrapporre la negazione del ruolo della Resistenza e l’esaltazione esclusiva di quello degli alleati: “a noi ci hanno liberato gli americani”. Oppure lo ritroviamo nel PCI, che si faceva vestale della Resistenza ai fini della propria legittimazione politica, comprimendo a torto il ruolo delle altre forze che hanno scritto la Costituzione e costruito la nostra democrazia. Ciò favorì indubbiamente un’interpretazione della Resistenza come esclusivamente rossa, tanto caro alle destre, il derby tra fascisti e comunisti riciclato di recente perfino da Salvini.
Mi piacerebbe sapere quanti tra i lettori di Giampaolo Pansa, di quelli che anche in queste ore berciano di verità occultate, abbiano letto Pavone o una qualsiasi monografia scritta da uno storico di professione. Temo pochi. Nell’Italia degli anni Novanta e Duemila Giampaolo Pansa, polemista instancabile e penna brillante (un bullo, artista del body shaming in realtà, come evidenziano i giornali di oggi), identificato fino ad allora come giornalista di sinistra, ma che non a caso ha finito la propria carriera sulle pagine del più becero quotidiano italiano, Libero, ebbe la capacità di sfruttare un filone aurifero che si apriva per la pubblicistica: l’esondazione di ogni narrazione anti-resistenziale dopo la caduta del muro di Berlino. Tale fenomeno fu coevo e complice delle necessità di sdoganamento berlusconiano degli ex-missini in un’Italia che si sosteneva essere stata governata per quarant’anni dai comunisti.
No, Pansa non fu un rivelatore di verità occultate. L’obiettività e il riferimento alle fonti era l’ultimo dei suoi problemi. Era un momento storico nel quale lo squadrismo mediatico permetteva di dire che nelle foibe fossero morte un milione di persone e chi lo negava fosse pagato dai titini. L’opinione pubblica, che si scoprì nient’affatto indottrinata dal PCI (come pure si pretendeva), finì per sposare qualunque tesi complottarda. Basta dire “verità negate” per appassionare la gente. Dalle foibe a Via Rasella al triangolo rosso in Emilia, tutto era funzionale a far passare una sorta di equiparazione tra antifascisti e i crimini della dittatura fascista, se non addirittura della Shoah. Pari e patta, nel contesto della fine della Storia e del trionfo dell’Occidente.
Il ruolo di Pansa, aggravato dalla cultura e poi da un’acrimonia personale contro i suoi critici, non fu né ingenuo né secondario. Fu capace di ribaltare un suo ricordo d’infanzia facendo rifucilare un repubblichino dai partigiani (in origine lo aveva raccontato al contrario) e architettò l’ideologia dei vinti senza voce per legittimare un’equiparazione tra fascisti e partigiani (tutti comunisti, salvo quelli uccisi dai comunisti) così utile all’Italia di quel tempo. I repubblichini per Pansa non dovevano essere chiamati fascisti ma vinti, un succedaneo di vittime. Chiamandoli fascisti –sosteneva – si sarebbe tolto loro voce. Un cattivo maestro.