Il corto circuito creatosi sul “Salone del libro” di Torino, è esclusiva responsabilità di chi ha preso la decisione tutta politica di accettare i fascisti di Casa Pound. Per questo livello decisorio, totalmente chiuso al dialogo, impersonato dalla dichiarazione della dott. Rebola, direttrice del Circolo dei lettori, il fascismo è una legittima sensibilità politico-culturale da rispettare come le altre. Ciò (Rebola dixit, dorso torinese di “Repubblica”, 5 maggio, p. V, taglio basso) “in nome della Costituzione e della libertà di espressione”. Questo è stato il pacchetto etico imposto ai vari Lagioia, Lipperini, Raimo (quest’ultimo con una triste marcia indietro notturna), che evidentemente non hanno avuto la forza, non solo contrattuale, per ottenere l’unica cosa sensata prima del circo scatenatosi nelle ultime 48 ore, cioè rompere il contratto con Altaforte.
I decisori della massima fiera editoriale italiana hanno così scelto di lanciare un segnale pesantissimo, ma perfettamente in linea col clima generale del paese: “col fascismo bisogna convivere”. Mi è sovvenuto quel ministro di Berlusconi del “con la mafia bisogna convivere” che, scava scava verso il fondo, ha portato al Salvini del “i camorristi si ammazzino tra di loro e non rompano le palle”, preciso segnale politico del Ministro degli Interni alla criminalità organizzata, passato pressoché sotto silenzio nella sua allucinante gravità solo domenica.
C’è un’Italia che “col fascismo bisogna convivere” perché è fascista, fascioleghista, o benpensante (i vari Battista), che considera l’antifascismo come “il problema” e il 25 aprile un derby. Ma c’è anche un’Italia che si sente buona, giusta e antifascista, che “col fascismo bisogna convivere” per malinteso liberalismo, perché Voltaire bla bla, perché tanto ci facciamo comunque le nostre belle iniziative civili, i nostri saloni, la repubblichetta dei libri (a negazione del paese reale), e nessuno ci impedirà di celebrarci Primo Levi, e non importa se gomito a gomito con chi Levi lo gaserebbe volentieri qui e ora, non nel 1943.
È quell’Italia civile, civilissima che si è rinchiusa nel bel gesto e nelle belle lettere, e sarebbe troppo facile ricordare il dibattito politico sulle periferie impoverite vs. centri benestanti per avere chiaro che (Zero Calcare lo dice molto bene) lo spazio ai fascisti vada conteso metro per metro. Lo sta facendo Polacchi a Torino, non per colpa di chi lo voleva fuori, ma di chi lo ha fatto entrare. I fascisti sanno perché sono al Salone del libro; perché i dieci metri del loro box diventino non 12, 13, 14, ma mille e poi tutti e 60.000 dell’intero salone. Non è colpa di Wu Ming se i giornali intervistano Polacchi, ma di chi gli dà agibilità politica, dal Ministro degli Interni alla dott. Rebola.
Continuo a pensare che la parola esatta l’abbia detta il figlio di Leone e Natalia (mi si perdoni il ricorso genealogico, ma per deformazione professionale trovo la contestualizzazione indispensabile per le nuove generazioni), il grandissimo storico Carlo Ginzburg: “il problema è esclusivamente politico” e le questioni legali e commerciali sono secondarie. Con il fascismo non si può convivere perché la convivenza col fascismo è incompatibile con la democrazia, col pluralismo e con tutte quelle (altre) sensibilità da rispettare delle quali blatera la dott. Rebola e che il fascismo nega.
E no, non necessariamente la democrazia è più forte del fascismo. Affermarlo è ipocrita, consolatorio e assolutorio. Lo hanno chiarito – la Storia fa tenere la schiena dritta – i sopravvissuti della Shoah, che escludono di partecipare se ci saranno i fascisti. Vogliamo accusarli di intolleranza? Mentre intorno a Lagioia si continua a spacciare l’idea di una festa della lettura, che sembra sempre più il ballo del Titanic, le vittime della Shoah lamentano (cfr. La Stampa di oggi) di non essere state degnate di risposta da chi nel Salone decide davvero. La Storia, sempre quella, a volte mette davanti a scelte scomode; ma la sensibilità dei sopravvissuti conta evidentemente meno.