Un inascoltato studio di marzo accertava che il 70% degli spagnoli provassero orrore per Vox, un partito che usa il linguaggio della guerra civile, per millantare una Spagna rossa che non esiste. Eppure i media, quelli italiani in particolare, non hanno fatto altro che magnificare l’inarrestabile avanzata di una Forza Nuova iberica, con un discorso dai toni falangisti e nazional-cattolici, manifestamente maschilista, omofobo e razzista, che parla di Reconquista, e che aveva nel proprio programma l’adesione al gruppo di Visegrad; il famoso Asse Budapest-Varsavia-Madrid. Tutti erano così sicuri di dove andasse il mondo che la destra spagnola, il Partito Popolare e in misura appena minore Ciudadanos, ha pensato bene che tutta la competizione fosse per quel 30% che supponevano stesse per votare Vox, scoprendosi al centro e aprendo praterie al PSOE.
Vox dunque si ferma al 10% e l’analisi alla moda delle classi popolari che si buttano a destra perché abbandonate dalla sinistra, almeno in Spagna non passa. La ricerca spasmodica di elettori “votavo comunista, ora voto Vox”, della quale erano pieni ancora i giornali di ieri, si rivela fuori luogo, un bozzetto a tema. Le classi popolari spagnole dimostrano anzi di saper benissimo che non si possono sacrificare i diritti civili nell’illusione (vana) di ottenere quelli sociali, svuotati dal modello economico vigente. L’unico grande argomento di Vox – e tuttora un pericolo esiziale – resta quello della questione catalana, letta come “secessione dei ricchi” per usare una categoria italiana. Altrimenti gli spagnoli hanno dimostrato di saper bene cosa sia stata la guerra civile evocata da Abascal che parla di “dittatura progre” e “fronte popolare” (sic). Se la destra può rispolverare i più rancidi degli slogan, la sinistra può sciogliersi nel più degno dei “No pasarán”, a lungo gridato ieri.
Così vince il PSOE, un giovane partito vecchio di 140 anni, il Partito Socialista Operaio Spagnolo fondato nel 1879 da Pablo Iglesias, curiosamente omonimo del fondatore di Podemos. Anche se non sempre basta nelle elezioni, il PSOE di Pedro Sánchez stavolta non ha fatto altro che essere se stesso. Colore rosso, garofano anni Ottanta, quel nome antico con quella parola negletta e altrove tabù – socialismo – è un partito solidamente europeista, laico e riformista. È evidentemente prono al modello neoliberale, come già lo fu quello di Zapatero, ma in grado di garantire il minimo comun denominatore del sistema democratico, in un paese dove la sensibilità per diritti troppo a lungo conculcati resta per fortuna enorme. Di questi tempi non è poco e si può dire che mentre il PP di Aznar e Rajoy sia percepito come il simbolo dell’inviso sistema dei partiti, il PSOE, che di quel sistema ha sempre fatto parte, sia visto anche come fattore di stabilità del sistema democratico in sé. Il cuore del sistema democratico.
La lunga decantazione che aspetta Sánchez di qua alle europee del 26 maggio lo mette nelle migliori condizioni. Ha almeno due forni con i quali trattare, esperendo ogni possibilità alla ricerca di vantaggi anche marginali. Risparmio i numeri. Il primo forno è quello dei centristi di Albert Rivera, Ciudadanos, che continuerebbero a schiacciare il PP sulla destra. Un governo PSOE-C’s, sarebbe inviso per ora agli elettori di entrambi i partiti, ma è tuttora la soluzione più stabile, congelando il conflitto catalano, nella speranza vana che si soluzioni da solo. Una soluzione per giugno.
Il secondo forno per il PSOE è a sinistra, con i vari nazionalisti regionali e Podemos, che rifluisce dal 20% in un bacino non troppo oltre quello che fu di Izquierda Unida e prima ancora del Partito Comunista. Magari in Italia ci fosse una sinistra radicale capace di andare al voto in modo unitario e sfiorare il 15% dei suffragi, ma il partito di Iglesias dà la sensazione di aver sbagliato qualche partita decisiva, aver sofferto qualche divisione di troppo o semplicemente aver toccato nel 2016 il suo tetto di cristallo. Se a destra C’s può aspirare a sostituire il vecchio, a sinistra il destino di Podemos sembra essere quello di fare da cespuglio radical della rinvigorita rosa nel pugno socialista.
Il paradosso più importante di tutte le elezioni spagnole sta però nel carcere di Soto del Real, vicino Madrid dove è rinchiuso Oriol Junqueras, eletto parlamentare della ERC, Sinistra repubblicana di Catalogna. Il rapporto di forza tra i catalanisti di sinistra e i catalanisti di centro-destra si è totalmente ribaltato a favore dei primi. Era 12 a 9 per gli eredi di CiU di Jordi Pujol; ora è 15 a 7 per quelli di Lluís Companys, fucilato da Franco nel 1940. Con i nazionalisti baschi e gli altri minori ci si parla, non è un problema per il PSOE, che ha una lunga storia di alleanze e dialogo. Il problema è la Catalogna, dove pure i socialisti riguadagnano posizioni. E qui sta tutto il dilemma di Sánchez: recuperare Junqueras lo riporterebbe alla Moncloa con una maggioranza di sinistra, ma – referendum per l’indipendenza o meno – lo esporrebbe al revanscismo delle tre destre. A ben guardare, ad avere una idea di come sciogliere il nodo catalano, queste avrebbero quattro anni per fare i capponi di Renzo. Forse è un prezzo che si può pagare.