Morire per Sirte?

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La bandiera nera dello Stato islamico che sventola sul mar Mediterraneo è un evento troppo rilevante per non chiedere con la massima serietà al ministro Paolo Gentiloni sulla base di quale progetto politico dovremmo “morire per Sirte”. Per stabilire un protettorato neo-coloniale in quelle terre irredimibili? Per imporre un satrapello che impicchi chi deve impiccare e incassi le nostre tangenti senza che si sappia in giro? Per imporre elezioni trasparenti come si può fare non in Svezia ma nella vicina Tunisia, ma forse non è possibile “esportare” in Libia?

Vi sono almeno due piani per interpretare l’idea di un intervento militare in Libia. Una è quella geopolitica tradizionale, l’altra è quella rivoluzionaria, sapendo che un piano non elide l’altro. Il piano rivoluzionario ce lo rappresenta Karim Franceschi, che da un centro sociale di Senigallia, nelle Marche, è partito per combattere a Kobane, «nel Rojava e solo nel Rojava, tramite la sua resistenza, si deciderà il destino di quell’esperimento politico che si definisce “confederalismo democratico”: una via laica, femminista, ecologista e di autodeterminazione nel Medio Oriente». Karim appartiene a un’avanguardia cosciente ed è erede del meglio della nostra storia e del meglio del melting pot ineludibile nel nostro futuro: «farò quello che mio padre insieme a milioni di partigiani in Italia e nel mondo hanno fatto per difendere la libertà e la democrazia: combatterò in armi i fascisti del califfato nero». Anche se non è sovrapponibile, Karim è fratello di Charb. Anche se sembra passato remoto, e sarà usato mille volte strumentalmente alla bisogna, la bandiera nera nel Mediterraneo c’interroga anche su quel #JeSuisCharlie sul quale troppi distinguo sono stati fatti, e ci ricorda che l’unica convivenza possibile è laica, anti-sessista e anti-razzista e i fondamentalisti non sono miei nemici perché musulmani ma perché stuprano, torturano e assassinano in nome del loro dio dal quale rivendico il diritto di non essere importunato.

Il piano geopolitico c’interroga diversamente. L’incubo è la Somalia clintoniana, sapendo che anche quando apparentemente la pax occidentale ha stabilizzato un territorio lo ha fatto per favorire interessi e non in nome di libertà e uguaglianza. È ineludibile del fatto che, se ancora c’è un’area d’influenza della residua potenza regionale italiana, la Libia ne è parte, la sua stabilizzazione c’interessa e, nel merito, non è bene, per inazione o impotenza, subire decisioni prese a Parigi o a Washington. È sempre più evidente che dalla stabilità della nostra frontiera sud dipende una parte rilevante della nostra stessa stabilità.

Senza essere nostalgici di Gheddafi, come troppi a destra e sinistra sembrano essere, e sapendo che sarebbe senza senso dare tutta la colpa a Bush (che pure ne ha moltissima), è spaventoso prendere atto che se 15 anni fa i “talebani” stavano nella remota Kandahar, oggi si bagnino nel Mediterraneo. Se non bisogna alimentare un’islamofobia odiosa e insensata, la pericolosità dei fondamentalisti di tutte le religioni, un vaso di Pandora che giustifica violazioni dei diritti umani e sottende interessi inconfessabili, va riconosciuta come tale e la tragedia che ha investito il mondo islamico dall’Oceano Indiano al Mediterraneo in questo scorcio di XXI secolo rischia di travolgere anche noi che ci giriamo dall’altra parte, con le tivù che ci ammanniscono risse parlamentari o il festival di Sanremo. Rischia di travolgerci, ci sta già travolgendo, non già per un’invasione al di là dell’immaginazione, ma per i molteplici interessi, dal gas al petrolio alla disperazione dei migranti, ma soprattutto per l’alleanza oggettiva tra il fascismo islamista e quelli nostrani che usano i profughi che essi stessi creano per alimentare lo “scontro di civiltà”e destabilizzare le nostre democrazie.

Il califfato che oggi si affaccia sul canale di Sicilia non può piacere a nessun democratico, non solo per un internazionalismo più o meno ingenuo ma perché ciò destabilizza già oggi l’Unione Europea favorendo le estreme fascio-leghiste e lepeniane, senza contare il revanscismo neoconservatore del fondamentalismo protestante statunitense, che spera di rimettere a ferro e fuoco il mondo riprendendo il potere tra due anni. Li fermeremo sul bagnasciuga? Ma come?

A ben guardare, proprio nel destino dei profughi, nella sottrazione di questi agli aguzzini, alle mafie e agli interessi dei fascisti delle due sponde, nell’evitare loro una morte orribile a poche bracciate dalle nostre coste, vi è una prima risposta al quesito posto da Gentiloni. Nell’andarli a prendere dove sono, nel rivendicare il dovere civile dell’andarli a salvare e non farli affogare nel nostro mare, nel farsi carico dei costi politici ed economici del dar loro asilo, c’è tutto il senso del perché noi siamo meglio dei fascisti; i nostri e i loro.