Oltre che per il Parlamento Europeo e in Ucraina, vi è un terzo processo elettorale di grande importanza in corso questa domenica: le elezioni presidenziali in Colombia. La sfida, che quasi certamente si concluderà al ballottaggio, è tutta tra due candidati delle destre, quella rappresentata dal presidente Juan Manuel Santos, e l’ultradestra espressione dell’ex-presidente Álvaro Uribe, che candida Óscar Iván Zuluaga. Mai sotto i riflettori, se non per il caso di Ingrid Betancourt, la Colombia, ben più importante del Venezuela, del quale tutti discettano, è seconda solo al Brasile come popolazione in Sudamerica e al Messico tra i paesi di lingua spagnola ed è una potenza regionale che estende la sua sfera d’influenza dall’Amazzonia alle Ande a una buona parte dei caraibi e, complice il declino del Messico, in tutto il Centro America fino al Guatemala.
Il principale oggetto del contendere è il processo di pace con l’ultimo grande movimento guerrigliero del continente, le Forze Armate Rivoluzionarie Colombiane. L’uribismo, un fenomeno politico pienamente prodotto dell’era Bush, pretese e pretenderebbe la guerra senza quartiere alle FARC come foglia di fico per difendere gli interessi delle classi dirigenti, del narco, delle compagnie minerarie e soprattutto dell’agroindustria che negli ultimi trent’anni ha sottratto quasi 10 milioni di ettari ai piccoli produttori, spingendoli verso la disperazione e alimentando la guerriglia stessa.
Il presidente Santos, un patrizio che conta dalla sua un vero impero mediatico, dopo aver condiviso come Ministro della Difesa le responsabilità di Uribe, come presidente, in una differente fase storica rispetto a quella della “guerra al terrorismo” post-11 settembre, è tornato a giocare la carta di un difficile processo di pace, in corso all’Avana, dopo oltre sessant’anni di conflitto interno. Le negoziazioni, a prescindere dalle enormi difficoltà, vanno avanti con la firma, appena pochi giorni fa, del terzo capitolo, quello sulle droghe, dopo che i primi due avevano riguardato la riforma agraria e la partecipazione politica.
Il capitolo supera la visione militarista della guerra alla droga (tesa a salvaguardare i grandi interessi celati dietro questa) in favore di una riconversione partecipativa delle colture. Il rafforzamento del ruolo delle comunità locali –dove il peso politico degli ex-guerriglieri sarebbe alto- nella ricerca di uno sviluppo alternativo alla coca è la chiave di volta della pace possibile. Con tutti i dubbi che la triste storia colombiana induce, i passi avanti sarebbero straordinari. Le FARC, che infine ammettono di essersi finanziate in questi anni col narcotraffico, facendosi parte attiva nella riconversione, contribuirebbero uscendone a isolare i veri poteri criminali dietro il narco.
Tutta la trattativa in corso all’Avana ha esposto la presidenza Santos a crescenti accuse di debolezza di fronte alla guerriglia. Inoltre, alla crisi strutturale di interi settori produttivi, prodotta dal TLC con gli Stati Uniti (la lezione messicana non bastava?), e alla combattività di questi, ha corrisposto la necessità di Santos di dialogare, e quindi, secondo i critici, mostrarsi nuovamente debole. Mentre molti movimenti sociali e perfino il sindaco di Bogotá, il progressista Gustavo Petro, prima destituito e poi reinsediato da Santos, hanno finito per appoggiare il presidente almeno come male minore, altri settori, soprattutto urbani, non si sentono coinvolti dal processo di pace, escludono la trattativa come possibile soluzione ai conflitti sociali e finiscono per essere attratti dalla semplicità della mano dura proposta dal candidato uribista in grande crescita nei sondaggi. È un contesto nel quale le tre candidature alternative, compresa quella della progressista Clara López, restano sullo sfondo. Nella campagna elettorale il tema del processo di pace ha oscurato quasi tutto il resto, finendo per essere quasi monotematica. Zuluaga ha tenuto il discorso classico dell’estrema destra uribista rappresentando Santos come il Quisling che ha aperto le porte al “complotto comunista”: «Santos è passato da Uribe al totalitarismo chavista consegnandogli le chiavi della pace» ha ripetutamente affermato. Di fronte ad un attacco così diretto Santos ha titubato, sposando infine un tono più basso che vari analisti colombiani hanno definito “berlusconizzato”: ha dismesso i panni del liberal-conservatore per far battute e parlare continuamente di calcio.
In chiusura le elezioni colombiane vanno collocate rispetto alla geopolitica regionale. Santos non è mai stato Uribe. Mentre il secondo agiva come sicario di fatto per conto di George Bush, e cercò ripetutamente di trascinare il Venezuela in una guerra per mettere fine all’esperienza bolivariana, il primo, non appena presidente, si ricollocò rispetto alla nuova fase storica del Continente, migliorando radicalmente le relazioni col Venezuela e col Brasile rispetto al suo predecessore. Tuttavia la Colombia, chiunque vincerà, resterà il perno dell’Alleanza del Pacifico (il contraltare neoliberale all’integrazione progressista dei paesi che per lo più affacciano sull’Atlantico). In questo senso, i dialoghi di pace in corso a Cuba, e dei quali il Venezuela chavista è il primo garante, rappresentano in sé un fatto politico intorno al quale i diversi attori sono chiamati a collocarsi. Non è un caso che Zuluaga stigmatizzi l’eventuale pace che metterebbe fine a oltre mezzo secolo di guerra civile come un’intollerabile ingerenza del “castro-madurismo”: se vince la pace è un’ulteriore legittimazione per Cuba e Venezuela, se continua la guerra è una rivincita per Bush. Tocca farsi piacere Santos.