Nel quinto anniversario dell’invasione in Iraq praticamente tutti i media italiani, tra questi vari TG, incluso il TG3, ma anche La Stampa, il Sole24ore, il Messaggero, e poi l’Unità e potremmo continuare, ricordano le 4.000 "vittime americane". Non succede lo stesso negli Stati Uniti, dove il termine "victims" di fatto non esiste, o viene usato solo per le vittime irachene. In Italia si sta modificando la percezione del "caduto" tra XX e XXI secolo e questo sempre più spesso viene sovrapposto alla "vittima di guerra".
Il cuore di questa riflessione è l’uso del termine "vittime", che come scelta alternativa a "caduti" implica un ragionamento storico-politico che non può fermarsi alla casualità nell’uso di un apparente, ma falso, sinonimo. Proviamo a verificare come i media statunitensi identifichino quelle 4.000 "vittime americane", numero considerato da tutti una "milestone" (pietra miliare) della guerra irachena. Cercando il termine "fallen", "caduto", questo è usato in gran copia, ma è minoritario rispetto al termine "death" o "dead", "morti", che appare il termine di gran lunga più usato: "4.000 soldati morti" è la definizione quasi egemonica. I caduti statunitensi, nella loro stampa, sono soprattutto morti, senza né indulgenza né esaltazione.
Molto raro è il termine "eroi". Stranamente viene usato soprattutto in associazione alla richiesta di ritiro. E’ il veterano di guerra, che ha combattuto con onore, ad avere il diritto di chiedere il ritiro in nome degli "eroi" che non sono più tornati. O, all’opposto, è lo stesso veterano di guerra a chiedere di restare per non vanificare la morte degli "eroi". E’ un uso del concetto di "eroismo" interno alla cultura militare per la quale il civile, e chi si è sottratto o non ha adempiuto agli obblighi militari, come lo stesso Comandante in capo, George Bush, ha meno voce in capitolo del veterano. Ed è il veterano a potere spendere, a ragion veduta, il termine "eroi" per i suoi commilitoni caduti.
Diviene invece difficile verificare proprio l’uso del termine "victims" confondendosi con il riferimento alle "vittime irachene". Alla lettura di molteplici fonti tale uso appare del tutto marginale. Non sono riuscito a trovare un solo esempio chiaro di uso del termine "vittime" in riferimento ai soldati occupanti caduti. Il che stride con l’uso maggioritario fattone in Italia. Per i media statunitensi dunque il soldato è morto o al massimo caduto. non c’è bisogno di definirlo eroe, George Bush ha parlato di sacrificio, e tantomeno, in quanto volontario, viene pensato come vittima. Tutti questi usi appaiono senza sbavature e corrispondono all’uso e alla cultura di un paese, gli Stati Uniti, che considera la guerra un avvenimento e non un accidente della Storia.
DA MONTEZEMOLO A NASSIRIYA
I media statunitensi sono del tutto lineari. Usano il termine più corretto, e totalmente neutro, per identificare i 4.000 morti in Iraq: "morto" quasi sinonimo di "caduto", non "vittima" come fanno gli italiani. Perché questa differenza così grande? Sui "caduti per la patria", e per esempio, sui "monumenti ai caduti", si costruisce una parte importante dell’idea di nazione novecentesca. La "vittima" è invece tipicamente il civile, la "vittima del bombardamento", le "vittime del massacro delle Fosse Ardeatine". Verso le "vittime" vi è cordoglio, ma anche distacco. Laddove la "vittima" esalta l’idea di crudeltà del nemico, ma anche la debolezza della patria incapace di difendere i civili, è il "soldato caduto" il simbolo e l’interprete della "comunità di eroi" che forgia la nazione.
Tutto si sta complicando con le guerre del XXI secolo, le guerre asimmetriche, le guerre al terrorismo. Si poteva pensare tutto il male possibile dell’esercito tedesco durante la seconda guerra mondiale, ma a nessuno veniva in mente che questo non fosse un esercito regolare. Anche i morti, nelle più terroristiche delle azioni naziste, si pensi alle Fosse Ardeatine, se militari venivano considerati "caduti in guerra" in opposizione ai civili, invece considerati "vittime". C’è un esempio particolarmente calzante di questa differenza: il colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo, ucciso alle Ardeatine, dove fu portato direttamente da Via Tasso dove era stato orribilmente torturato, è considerato un caduto in guerra, ucciso tra vittime. Leggendo la motivazione della medaglia d’oro al valore militare, se ne può cogliere la divaricazione leggera ma precisa, rispetto alle altre "vittime": "In occasione di una esecuzione sommaria di rappresaglia nemica, veniva allineato con le vittime designate nelle adiacenze delle catacombe romane e barbaramente trucidato".
Montezemolo, del quale si è appena lodato l’eroismo tanto da conferirgli la massima onorificenza militare alla memoria, viene allineato nella motivazione della stessa dal nemico alle vittime. Ma Montezemolo, quasi si puntualizza, è allineato alle vittime, non è vittima. Resta un caduto e un eroe. E’ ineccepibile: la vittima non sceglie di mettere a rischio la propria vita per un ideale, semplicemente muore, pianto, ma condannato ad una sorta di limbo nel quale non se ne riconosce la gloria. Montezemolo, un militare di carriera attivo nella Resistenza, invece aveva scelto di rischiare la vita per la patria, perdendola. Nonostante sia morto da vittima come gli altri (tra i quali vi erano comunque decine di Resistenti), la categoria di vittima per lui sarebbe stata giustamente stridente e riduttiva.
Ma l’Esercito regio e i Resistenti come Montezemolo, combattevano un nemico riconosciuto. Oggi tutto è più complicato dal non riconoscimento del nemico dato dalle guerre asimmetriche. La resistenza irachena per esempio (nonostante il diritto internazionale sostenga tutt’altro) può per definizione compiere solo azioni terroristiche. Sempre, sia che un kamikaze si faccia esplodere sullo sportello di uno scuolabus, sia che vengano compiute (da gruppi diversissimi) ardite azioni militari tradizionali contro il nemico.
In questo contesto, se il nemico è sempre un terrorista, sorgono problemi di definizione anche per chi gli si oppone. Se il soldato statunitense è indubbiamente "caduto" nell’accezione italiana, della non guerra, della missione di pace e della popolazione locale non ostile, sorge il dubbio, alimentato dalla politica e dai media, che chi muore non possa cadere in una non guerra. E allora cosa diviene? Una "vittima" per esempio, vittima di un nemico non nemico, di un terrorista estraneo in un territorio altrimenti amichevole. Amichevole non solo verso di noi, ma anche verso i nostri alleati; ed ecco giustificate le "4.000 vittime americane".
La categoria di "vittime" sembra così essere buona per tutte le stagioni: a sinistra risolve il problema della non guerra e della nostra Costituzione che la ripudia, a destra fa concessioni a chi si riconosce nella guerra al terrorismo, e al centro, con quelle "vittime", riconosce la morte in guerra come una morte innocente ed esprime innanzitutto pietà, svicolando dalla necessità di definirsi rispetto alla guerra. E’ il caso tipico di Nassiriya. Non ci interessa in questa sede definire la natura di quella azione, ma la definizione dei morti.
Ci aiuta il web. Le quattro principali definizioni possibili sono: "caduti di Nassiriya" (si trova 29.100 volte in Google), "vittime di Nassirya" (10.500 volte), "morti di Nassiriya" (5.840 ricorrenze) oppure "eroi di Nassirya" (1700 volte). La definizione totalmente neutrale è "morti". Se è quella più usata negli Stati Uniti, forse per motivi uguali e contrari in Italia pochi la usano. E’ come se in Italia fosse necessario comunque qualificare quelle morti, scegliendo, posizionandosi. Come se la semplice morte fosse insufficiente. Ricordiamo l’uso pubblico del funerale del soldato in Italia e il fatto che negli Stati Uniti non sia permesso mostrare le bare e che Bush non abbia mai partecipato ad esequie di caduti. Si potrebbe dire che negli Stati Uniti la morte in guerra è una morte come un’altra, mentre in Italia (per fortuna anche quantitativamente) non può esserlo. Si potrebbe dire però anche che l’esaltazione della morte in missione all’estero, in Italia viaggi con il freno a mano tirato nonostante per esempio la trasmissione in diretta televisiva dei funerali, cosa impensabile altrove. Se questa morte non può essere usata per cercare una rivincita, una nuova chiamata alle armi, che sta nella logica storica dell’uso del "caduto", dell’andare avanti in loro onore, allora è necessario il rifugiarsi nella "vittima". E cosa elide l’uso di "vittima" se non l’idea della morte in guerra?
In questo contesto la scelta tra caduti, vittime, eroi, non è mai neutrale, anche se possono esserci usi ingenui o casuali. Il primo, "caduti", se è sufficiente a spiegare una morte in una guerra del XX secolo (sono morti perché impegnati in guerra) non è sufficiente a spiegare una guerra del XXI secolo, dove la guerra non è dichiarata, con la complicazione nostra che la guerra è missione di pace e il nemico non è riconosciuto, di fatto non esiste. Se "morti" negli Stati Uniti è maggioritario e "caduti" è usato come sinonimo e questi due termini sono pressocché esaustivi, in Italia "morti" non spiega e retrocede al terzo posto ma anche "caduti" non riempie le sfumature necessarie aprendo degli spazi interpretativi importanti all’uso dei termini antitetici di "vittima" ed "eroe".
La definizione di "vittime" è particolarmente adattabile nell’Italia che ufficialmente ripudia la guerra: i morti non erano senz’altro impegnati in un’azione di guerra e il nemico ha compiuto un’azione, il camion bomba contro una caserma, oggettivamente assimilabile all’idea di azione terroristica. Definirli "vittime" è quindi perfettamente calzante sia della pietà dovuta ai morti, sia della necessità di inserire l’evento nel contesto terroristico. In tutto ciò però resta un vuoto. Dove finisce l’essere militari, con la retorica ma anche il valore e la cultura che comporta? Si perde in quel "vittime": se sono vittime come i civili, che militari erano? Montezemolo, eroe, diventa caduto e non vittima alle Ardeatine. I morti di Nassiriya, cadono e diventano vittime. Non è esaustivo.
Si fa strada allora una terza possibilità, polemicamente antitetica con quella di "vittime", la rivendicazione dell’eroe: "eroi di Nassirya". E’ una definizione debolissima (alcuni dei morti erano impegnati in cose quotidiane, si facevano la barba, facevano colazione, chattavano con la fidanzata). Nella sua debolezza ricorda Bertold Brecht e il suo "benedetto quel popolo che non ha bisogno di eroi". Per chi non si accontenta di quell’improprio "vittime" c’è bisogno di "eroi". E’ la definizione usata soprattutto in ambienti di destra, consiglieri comunali che dedicano vie… persone, giornalisti, politici, che hanno un approccio iperbolico con la lingua, e per i quali se non si spara il termine più forte l’occasione è persa.
Ma non è necessariamente una scelta politica strumentale quella di definire i morti di Nassiriya come "eroi". Copre un vuoto legittimo aperto dall’improprietà dell’uso di "vittime". Rivendica una maniera di essere e di sentire un po’ decimononica, come se appunto si sentisse il bisogno di riportare la guerra nella storia, renderla normale in un paese che continua a rifiutarla, costruendo artificialmente quella "comunità di eroi" che anche Benito Mussolini pretendeva di forgiare senza successo negli italiani. Basta ricordare l’entusiasmo in certi ambienti per la figura di Fabrizio Quattrocchi per capire come tale mentalità resista.
La rivendicazione dell’eroismo, esiste e strilla. Eppure, guardando all’esempio di Nassiriya, è confinata al 3.6% delle citazioni, e forse qualcuno rimarrà perfino sorpreso siano così poche. Ben più in alto, al 22%, sta l’uso di "vittime" che diventa oggi maggioritario su tutta la nostra stampa per definire quelle "vittime americane" che vittime non si sentono. "Vittime" resta un termine improprio e inesatto. Ma è il termine con l’interpretazione del quale dobbiamo fare i conti. Un uso, quello di "vittime" che non vuol fare i conti con la guerra, che con volontarismo cerca di ricacciarla fuori della storia, purtroppo senza riuscirci.