Il fatto saliente della crisi andina non sono i carrarmati. Il fatto politico saliente è che la Colombia (con la qualificata eccezione degli Stati Uniti) è completamente isolata nel continente. Ed è completamente isolata perché l’ha fatta grossa. Dal Cile al Brasile tutti temono la volontà di escalation militare e il tentativo di incendio della regione voluto da Bogotà ed esprimono tale preoccupazione alla OEA. L’altro fatto politicamente saliente è che, come avevamo anticipato già una settimana fa, il presidente colombiano Álvaro Uribe e quello statunitense George Bush stanno mettendo in atto una strategia che impedisce deliberatamente la liberazione dei sequestrati delle FARC, a partire da Ingrid Betancourt, e anzi ne auspica la morte.
Adesso è tutto chiaro. Secondo quanto ha denunciato il presidente ecuadoriano Rafael Correa le trattative con le FARC per portare alla liberazione di Ingrid Betancourt erano ad un passo dal raggiungere l’obbiettivo. Ha rincarato la dose il portavoce del Ministro degli Esteri francese, Bernard Kouchner: “Álvaro Uribe era a conoscenza del fatto che Raúl Reyes [che appena poche ore prima aveva parlato con il ministro stesso], era il mediatore (come già lo fu per anni nell’epoca di Pastrana)”, ed è per questo che si è preso il rischio di una crisi internazionale uccidendolo.
Quindi il governo colombiano ha innescato una cortina di fumo di menzogne, da quella della morte in combattimento di Reyes, facilmente svelata, i guerriglieri sono stati uccisi nel sonno, a quelle più fantasiose. Tra queste quella che Hugo Chávez starebbe addirittura finanziando la bomba atomica delle FARC. E’ evidente che quando c’è di mezzo il petrolio, gli Stati Uniti cercano sempre di accoppiare il pericolo atomico per trovare buone scuse per un’aggressione militare, diretta o per interposta persona.
Ieri non solo Ecuador e Venezuela, ma con durezza anche Brasile ed Argentina e perfino la moderatissima cilena Michelle Bachelet, solitamente distante dai governi integrazionisti, si sono schierati fermamente contro Bogotà. Lo hanno fatto appoggiando anche le decisioni più dure di Ecuador e Venezuela, come la rottura di relazioni diplomatiche con la Colombia, considerandole giustificate di fronte alla gravità dell’aggressione dell’esercito di Uribe. Questo è l’unico armato fino ai denti nella regione e il rapporto in spese militari tra Colombia e Venezuela, in cifra assoluta, è di 4 a 1, senza contare gli aiuti statunitensi al primo.
Tanto più resta isolato nel continente, tanto più Álvaro Uribe alza i toni e si appoggia a George Bush e alla traballante ideologia della guerra al terrorismo che dall’Afghanistan a Gaza, dall’Iraq alla selva colombiana ha raccolto solo fallimenti e lutti. Ieri, nel vertice della OEA (Organizzazione degli Stati Americani), convocato d’urgenza per discutere dello sconfinamento dell’esercito colombiano in Ecuador, solo un veto da guerra fredda opposto dagli Stati Uniti ha impedito una condanna senza appello della Colombia. Uribe non poteva essere più soddisfatto: “appoggiamo completamente il governo colombiano e il presidente Uribe”, ha affermato l’ambasciatore statunitense alla OEA. Tutto il resto per Uribe non conta.
Non è obbligatorio dar credito alla famiglia Betancourt, che disperatamente denuncia il “sabotaggio” di Uribe alla liberazione di Ingrid. Non è obbligatorio neanche dar credito a Correa quando dice che “la liberazione di Ingrid Betancourt era ad un passo”. Non è neanche obbligatorio dar credito a Chávez o al ministro francese Kouchner. Ma è obbligatorio dar credito ai fatti degli ultimi mesi. Di fronte a una sequenza di aperture da parte delle FARC, due liberazioni di sequestrati in gennaio e quattro in febbraio, e all’azione sempre più positiva di un concerto di paesi che, capitanati dall’odiato Chávez va dalla Francia all’Argentina, dall’Ecuador alla Svizzera, stava aprendo una prospettiva di pace, il regime colombiano ha prima fatto muro e poi è passato all’azione uccidendo l’uomo della mediazione. E lo ha fatto “internazionalizzando il conflitto” che è proprio quello che da oltre un decennio gli Stati Uniti vogliono (dal Plan Colombia in avanti) e soprattutto il Brasile vuole evitare.
In queste ore si possono leggere alcune rivalutazioni da parte di alcuni media, anche di sinistra, che in precedenza avevano scelto di stare con il neoliberale e narcoparamilitare regime colombiano, considerandolo un utile cordone sanitario verso quello bolivariano di Caracas. In questo caso non è questione di esprimere giudizi politici su Hugo Chávez e il suo movimento, i limiti, gli errori o i risultati conseguiti in questo decennio. In questo caso ci troviamo di fronte a due opzioni politiche chiare. Da una parte c’è il partito della guerra al terrorismo, quello di Uribe e Bush, dall’altra c’è quello della trattativa e della persecuzione di un difficile processo di pace in Colombia, che è quello dei governi integrazionisti latinoamericani.
Chi scrive ha più volte espresso un giudizio negativo delle FARC. Nonostante le peculiarità della situazione colombiana e la sterminata violenza della quale oligarchie e narcotraffico sono capaci, per la Colombia una guerriglia con quelle caratteristiche è una parte del problema e non la soluzione. Nonostante sia colpevole in maniera documentata forse del 5% della violenza nel paese, laddove il 95% è documentatamente responsabilità della narcopolitica e del terrorismo di Stato, la guerriglia non aiuta a risolvere i problemi del paese soprattutto quando si macchia di crimini come il sequestro di persona. Detto ciò le FARC esistono e sussistono tutte le condizioni date dal diritto internazionale per considerarle una forza belligerante. Solo l’ipocrisia della guerra al terrore impedisce di farlo. Anche adesso, di nuovo, delle due l’una, o si sta con il dialogo che può aprire una prospettiva di pace, o si sta con l’escalation e lo sterminio, ovvero con Uribe e Bush.