Luciano Gallino: il progetto incidenti zero

L’incidente di Molfetta, in cui quattro lavoratori sono morti per essersi calati in un’autocisterna satura di esalazioni di zolfo, è indicibilmente penoso. Anzitutto per i suoi innumerevoli precedenti, che attestano concordemente della sua prevedibilità. Di cisterna e contenitori similari, da sempre, si muore, quale che sia il particolare gas che avvelena fulmineamente chi vi entra senza un respiratore adeguato.

Per memoria: novembre 2007, due operai muoiono a Marghera asfissiati dall’anidride carbonica nella stiva d’una nave. Marzo 2007: padre e figlio sono uccisi dall’ossido di carbonio in una cisterna d’acqua piovana nei pressi di Verona. Agosto 2006: muoiono in due nella cisterna di un oleificio della zona industriale di Monopoli.

La lista può andare indietro per decenni, per centinaia di nomi. Ed ora questi quattro, tutti in una volta. Quella lista dice che il loro incidente si poteva prevedere. In tanti potevano prevederlo. Che tristezza. Ma anche che rabbia.
Chiunque soltanto si avvicini ad una cisterna, di qualsiasi tipo, dovrebbe saperlo che lì dentro sta aspettando la morte. Dovrebbero averglielo detto tutti, il capo, l’imprenditore, il fornitore, i compagni. Dovrebbe aver ricevuto una formazione apposita. Dovrebbe avere un respiratore alla cintura, beninteso del tipo adatto e in perfette condizioni, ed essere sollecitato ad indossarlo da scritte vistose, lampeggiatori che scattano appena si apre un portello, segnali sonori, magari dispositivi che impediscono che il portello, o quello che sia, venga aperto da qualcuno che non indossa un respiratore.
E non si dica che sarebbe difficile, o troppo costoso. Su molte auto si montano i sensori di parcheggio per evitare graffi alle portiere. Un sensore per evitare le morti dalle esalazioni di cisterna meriterebbe forse investimenti analoghi.
L’altro aspetto che accresce la pena della tragedia di Molfetta è che si tratta d’una tragedia della solidarietà sul lavoro. Simile, anche in questo, ai suoi innumerevoli precedenti. Uno si cala all’interno della cisterna per compiere una certa operazione, si sente male per le esalazioni che la saturano, chiede aiuto, oppure non si fa sentire per troppo tempo. Un compagno lo sente, o si insospettisce per il silenzio prolungato, si cala dentro per portargli aiuto, e ci resta anche lui. A Molfetta han perso la vita, per aiutare l’altro, anche l’autista della cisterna e il titolare dell’azienda. Sono i momenti in cui non si valuta il rischio. Si è magari consapevoli che ne va della vita, ma se l’altro si è sentito male bisogna portargli aiuto, succeda quel che succeda. Di conseguenza, uno dopo l’altro, si entra nel luogo infernale, e uno dopo l’altro si muore cercando con tutte le forze di riportare i compagni all’aperto, al sicuro, dove possono arrivare i soccorsi. È una nobiltà dell’agire umano che si riscontra soprattutto negli ambienti di lavoro – o nelle situazioni di guerra. Ma il lavoro, l’ordinaria fatica per guadagnarsi da vivere, non dovrebbe assomigliare a una guerra.

Adesso si riparlerà – già se ne riparla, fin dai primi minuti dopo la diffusione della tragica notizia – della nuova legge sulla sicurezza dei luoghi di lavoro, della necessità di accelerare i decreti attuativi, di migliorare il coordinamento tra le forze ispettive. È necessario parlarne, di certo è indispensabile introdurre, presto, nuove norme.
Ma la agghiacciante prevedibilità della tragedia di Molfetta ci dice che le leggi, le norme, le ispezioni da sole non bastano. È l’intera organizzazione del lavoro che andrebbe ripensata, e con essa la frammentazione della produzione in catene di cui in fondo nessuno conosce bene l’inizio e la fine, chi sta facendo – o no – che cosa, chi è responsabile di questo o quell’anello, la distribuzione su territori troppo vasti per avere una conoscenza sicura di tutti gli anelli. Considerazioni di questo genere sono alla base, in altri Paesi, di progetti che si chiamano “zero incidenti sul lavoro”.
Tecnicamente ben fondati. Fosse mai un motivo, la tragedia insopportabile di Molfetta, per farci compiere qualche passo in questa direzione.

Repubblica