Ho partecipato con grande convinzione alla stesura di questo appello in difesa dell’Università pubblica, assediata ieri dal nichilismo gelminiano e oggi dai tecnocrati neoliberali di Mario Monti. “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”. I prestiti d’onore servono solo a garantire ai capaci e meritevoli privi di mezzi un futuro di debiti. L’abolizione del valore legale del titolo di studio configura un’ università classista, se non razzista, che esclude capaci e meritevoli privi di mezzi dalle università di serie A. Solo l’Università pubblica, gratuita e di qualità può essere strumento di progresso, crescita, democrazia e perequazione sociale (gc). Adesioni qui.
Tasse studentesche più alte e abolizione del valore legale del titolo di studio non miglioreranno l’università pubblica italiana.
Approfittando dell’attenzione dell’opinione pubblica verso le “liberalizzazioni” di alcuni settori di attività del nostro Paese come strumento per una loro modernizzazione, in questi giorni è stata rilanciata – con l’adesione di un gruppo di docenti universitari – la proposta di abolire il valore legale del titolo di studio (valevole quindi come condizione di accesso ai concorsi per l’impiego pubblico) e di “liberalizzare” le tasse studentesche (già tra le più alte dell’Europa continentale, specie se in rapporto agli scarsi servizi disponibili ed ai livelli di reddito), affiancandovi un sistema di prestiti agli studenti, da restituire dopo l’ingresso nel mercato del lavoro.
Andando all’essenziale, alla base di queste proposte ci sono alcune idee che non ci sentiamo di condividere. La prima è che l’equità sociale delle opportunità di accesso alla formazione universitaria sarebbe ristabilita dal sistema dei prestiti. E’ evidente che si tratta di una finzione (se non di un inganno): un individuo ‘povero’ indebitato, oggi studente domani (forse) lavoratore, non è uguale a (ne’ libero quanto) un individuo ‘ricco’ senza debiti. Anche quando si sostiene che comunque tasse più alte e prestiti sarebbero un sistema più equo dell’attuale, distorto principalmente dall’evasione fiscale, si finisce per far scontare ai giovani, gravandoli precocemente di debiti, l’incapacità dello Stato nel riscuotere i tributi.
La creazione di un mercato dei titoli di studio, conseguente all’abolizione del loro valore legale, metterebbe poi, secondo i proponenti, le università in una sana concorrenza per la qualità. Anche in questo caso siamo di fronte ad una finzione (se non ad un inganno). Date le posizioni di partenza degli atenei, diseguali e caratterizzate da sottofinanziamento, l’unica concorrenza che scatterebbe fra Università sarebbe appunto per le risorse, con conseguente vantaggio dei gruppi di potere accademico, politico ed economico consolidati che invece, si suppone, dovrebbero essere il bersaglio delle politiche di liberalizzazione nel loro spirito più nobile. Il ‘valore legale’ tenderebbe semplicemente ad essere sostituito dal valore monetario necessario per conseguire il titolo di studio. Le due misure associate produrrebbero un effetto micidiale di stratificazione per censo delle Università, acuendo i già presenti dislivelli territoriali che caratterizzano il nostro sistema universitario nazionale. Abolire il valore legale del titolo di studio significa anche abbandonare l’obiettivo di uno standard nazionale di riferimento per la formazione universitaria: al contrario bisogna intervenire perché tutte le università finanziate dallo Stato rispettino tale standard. Anche l’accento (giustamente) posto sulla centralità del merito nella vita universitaria assumerebbe, alla luce di queste misure, un deciso sapore classista.
Queste proposte implicano quindi una decisa spinta alla privatizzazione di fatto dell’università pubblica e alla restrizione sociale dell’accesso. Accettarle significherebbe anche una resa istituzionale all’inefficienza pubblica in vari ambiti, come il controllo dell’evasione fiscale e della qualità dei servizi pubblici, e del reclutamento nell’impiego pubblico.
Per questo chiediamo alla classe politica che si riconosce nella nostra Costituzione Repubblicana e al Governo di rifiutarle, di non accettare scorciatoie fuorvianti ai problemi del finanziamento e del rilancio del sistema educativo e universitario pubblico, così come di altri ambiti preziosi della produzione culturale del Paese. L’università deve restare una istituzione pubblica centrale e deve riprendere a svolgere tutte le sue funzioni, in primis quella di fornire una formazione critica e qualificata, basata su didattica e ricerca libere, plurali e rigorose, con il più ampio accesso sociale agli studi e alle professioni della ricerca e della docenza. Per poter svolgere questo suo ruolo pubblico all’università non serve mettersi in vendita, ma servono politiche e risorse adeguate.