Mario Tozzi, La Stampa
Fingiamo che l’annegamento dei cittadini campani in un mare di rifiuti non sia anche un problema di ordine pubblico e di malavita organizzata e che dipenda, come altrove in Italia, solo dall’ingente quantità di pattume che riusciamo a produrre, qualcosa come oltre 650 kg per persona ogni anno. Cosa dovremmo fare operativamente per avviare a una soluzione definitiva la questione? Una discarica non è mai la soluzione globale del problema rifiuti, sebbene quello di gettare gli avanzi attorno sia uno dei gesti più antichi dell’uomo. Una discarica è solo un buco per gettare soprattutto materia organica – la cosiddetta «frazione umida» – che copre circa il 30% del complesso dei rifiuti solidi urbani (Rsu), cioè resti di frutta e verdura, avanzi di cibo, ossa, bucce e quant’altro. Poi c’è la carta (28%), la plastica (16%), il legno e i tessuti (4%), il vetro (8%) e i metalli (4%), insieme con gli altri rifiuti che compongono la «frazione secca». E la frazione umida puzza, pure se, paradossalmente, l’aria di una discarica è certamente più salubre di quella del centro storico di Napoli, strangolato dal traffico. La puzza dei rifiuti non è gradevole, ma non intossica, come invece le diossine dei cassonetti incendiati per le strade.
Le discariche poi sono pericolose perché, a lungo termine, comunque inquinano: per quanto isolate artificialmente e poste in luoghi geologicamente adatti, sono soggette a perdere liquidi con probabile contaminazione di falde idriche, suoli e gas. Le discariche mangiano territorio e spazi comuni, alterano il paesaggio, richiamano gabbiani, topi, cornacchie, piccioni. Insomma i buchi non funzionano, perché dovremmo ancora sorbirceli magari per sempre? Non è nemmeno una soluzione bruciare i rifiuti, come si suggerisce a gran voce, non tanto per i problemi di carattere ambientale legati alle ceneri solide o ai fumi emessi al camino, carichi di diossine e polveri sottili anche quando restano nei limiti di legge. Da questo punto di vista un inceneritore non è più malefico del traffico cittadino responsabile di centinaia di migliaia di morti l’anno solo in Italia. Piuttosto è il bilancio energetico a essere in difetto perché si ottiene molta meno energia da un oggetto bruciato rispetto a quella che si è dovuta impiegare per costruirlo. Bruciare i rifiuti non conviene.
Due sono le soluzioni e le conosciamo bene: primo, produrre meno rifiuti, cioè ridurre di peso e volume gli imballaggi, cosa che aziende e ditte non hanno ancora cominciato significativamente a fare. Secondo, raccogliere i rifiuti in maniera differenziata e riciclarli, operazione che porta quattro vantaggi: allunga la vita delle materie prime, riduce gli inquinamenti, fa risparmiare energia e tutela il paesaggio dall’apertura di nuove cave e miniere. È un’operazione vecchia, che già si faceva nel nostro Paese negli Anni 60, quando i netturbini venivano a raccogliere fino davanti la porta di casa il contenuto dei secchi zincati foderati di fogli di giornale. Anzi, fino dalla Napoli del Settecento, le cui strade erano pulitissime, perché tutto veniva portato agli orti della campagna per ammendare il terreno e coltivare.
Si dice: però in Campania c’è un’emergenza. Ma che emergenza è quando se ne parla da almeno quindici anni e non si sono fatti passi in avanti di un qualche rilievo? Forse la via per uscire dall’emergenza è quella di considerarla cronicizzata e di comportarsi come il buon senso vorrebbe prendendo il tempo che ci vuole: campagne di educazione sul problema, partenza di una seria strategia per la raccolta differenziata e riciclaggio, seguendo l’esempio di comuni più piccoli, ma oculati che hanno capito – prima della camorra – che i rifuti possono diventare un affare (pulito) quando non li si considera più scarti, ma risorse. Almeno fino a quando non si arriverà al sospirato (ma forse utopistico) azzeramento dei rifiuti. Nell’ormai mitologico comune di Peccioli (Pi) arrivano oltre 600 tonnellate al giorno di rifiuti solidi urbani che qui vengono trattati e producono oltre tre milioni di euro l’anno con i quali l’amministrazione provvede alle spese correnti e anche a quelle straordinarie. Non contenti, a Peccioli hanno costituito un azionariato popolare per cui i cittadini si dividono i guadagni dello smaltimento controllato che gestiscono: 5 mila azionisti per un affare che non prevede speculazioni di Borsa e che non può conoscere crisi. Proprio quindici anni fa a Peccioli i rifuti erano un’emergenza, oggi sono una risorsa, converrebbe rifletterci.