Il dibattito sul cosiddetto “contributo di solidarietà” (che porterà ad un ulteriore peggioramento della manovra) e la letterina di Warren Buffett (nell’immagine) a Barack Obama hanno aperto discussioni francamente surreali per le quali i ricchi dovrebbero autotassarsi per generosità, contraddicendo la storia della finanza, del capitalismo e dell’economia. Eppure molti -forse per evitare di pensare conflitti sociali- fantasticano sull’arrivo dello zio d’America che metta mano al portafogli e salvi il paese con un atto di generosità.
Tale dibattito è testimone dello stato di povertà post-politica nel quale langue la nostra democrazia. Warren Buffett –per esempio- non è un filantropo, è uno che 365 giorni l’anno conculca i diritti dei lavoratori di Wall-Mart e solo per questo ha accumulato una delle 10 fortune più grandi al mondo. Adesso Buffett si può prendere lo sfizio di dire qualcosa di banalmente eterodosso –che da trent’anni ai ricchi tutto è consentito e non ne hanno bisogno- rispetto al pensiero unico nel quale ha accumulato i suoi fantastiliardi. Meglio sarebbe se alzasse la paga oraria dei suoi dipendenti. Allo stesso modo non è un filantropo George Soros che con la mano destra massacra paesi e distrugge economie e con la sinistra fa il gran borghese illuminato. Meglio sarebbe se smettesse di far girare come trottole i suoi capitali pirata. Potrei proseguire, anche con esempi del paese che da anni fa passare il signor Marchionne come un benefattore dell’umanità.
L’idea che ai cittadini ad alto reddito debba essere dato anche il lussuoso potere di decidere se e quando pagare le tasse (poveri calciatori, e se se ne andassero?), come se queste fossero una donazione liberale e non un dovere civile, non è solo insultante ma è anche priva di ogni fondamento.
In un regime democratico (se è che ancora viviamo in democrazia) le tasse hanno la funzione di perequare e rendere economicamente sostenibile la convivenza civile. Alla base di tale idea vi è la tassazione progressiva per la quale chi più ha più paga. Sta ai governi –di qualunque colore- decidere come distribuire la tassazione necessaria a tenere i conti pubblici in ordine.
E la fantasia neoliberale per la quale abbassare le tasse ai ricchi favorirebbe i poveri è una balzana menzogna diffusa insieme al gioco delle sedie (per il quale sarebbe meglio perdere il lavoro che conservarlo) e alla mano invisibile del mercato. Quindi, tanto più in un momento di crisi, chi più ha più deve pagare (perché deve, non perché vuole), indipendentemente dai sussulti da tea party di spezzoni del PDL e dalle titubanze dell’opposizione.
Pensare che il dibattito sulla patrimoniale debba passare per il consenso degli interessati –qualche illuminato si trova ma poi…- testimonia la cristallina fragilità culturale del pensiero politico contemporaneo. Arrivare a sostenere che ritassare i criminali evasori fiscali scudati da Giulio Tremonti sarebbe una rottura del patto sociale tra Stato e cittadini (mentre invece si attenta alle tredicesime di lavoratori da 1.000 o 2.000 euro al mese che probabilmente le hanno già impegnate in spese indispensabili) è testimonianza di una malafede non più tollerabile. Lotta all’arma bianca all’evasione fiscale e seria patrimoniale, oltre alla riduzione degli sprechi e non certo i tagli orizzontali tremontiani a servizi indispensabili –dagli insegnanti di sostegno alle borse di studio- sono l’unica via d’uscita. Che i ricchi e gli evasori siano d’accordo poco importa.