Secondo una ricerca della Brown University, firmata dalle studiose Neta Crawford e Catherine Lutz, le campagne militari condotte dall’esercito degli Stati Uniti dal 2001 ad oggi sono costate la vita ad un numero compreso tra 224 e 258.000 vittime civili, 7.8 milioni di persone si sono dovute rifugiare altrove e, in termini economici, sono già costate finora l’incommensurabile somma di 3700 miliardi di dollari (2650 miliardi di Euro).
Quindi, per ogni morto degli attentati dell’11 settembre, oggi sappiamo che la “giustizia infinita” ha ucciso 75 civili in quelli che George W Bush definiva gli angoli oscuri del pianeta.
Quelle citate sono solo le più macroscopiche cifre del bilancio di 10 anni di guerre volute da George W. Bush e dal complesso militare industriale statunitense dopo l’11 settembre 2001. Lo studio della Brown University, reso necessario -come sostiene il gruppo di oltre venti accademici che ha lavorato al progetto di ricerca- dall’opacità delle cifre fornite nei documenti ufficiali del Congresso degli Stati Uniti sui veri costi dei conflitti, rivelano una realtà devastante dal punto di vista sia umano che materiale. La maggior parte delle vittime civili si condensa in tre paesi, Iraq, con oltre 125.000 morti, Afghanistan e Pakistan. A tali numeri vanno aggiunti almeno 350.000 feriti documentati.
Alle vittime civili vanno inoltre aggiunte quelle combattenti. Gli Stati Uniti hanno perso circa 6.000 uomini. E’ una cifra che segue quella dei caduti iracheni, 9.900, e afgani, 8.800, ma supera quella degli alleati occidentali (1.200 caduti in totale) e dei mercenari (contractors) che hanno visto cadere 2.300 uomini di ogni nazionalità.
Il confronto tra i costi dell’11 settembre e i costi della guerra giustificata da quegli attentati sono stridenti. L’11 settembre morirono -secondo i dati ufficiali- 2.995 persone con costi economici compresi tra i 50 e i 100 miliardi di dollari, secondo le diverse stime. E’ triste dunque poter comprendere appieno oggi il valore di espressioni come “giustizia infinita” usate dall’allora segretario alla difesa di George W Bush, Donald Rumsfeld. Per ogni vittima dell’11 settembre le guerre combattute dal governo degli Stati Uniti hanno causato la morte di 75 persone e, per ogni dollaro di danni di quella tragedia, ne sono stati spesi almeno altri 75, in gran parte finiti nelle tasche di poche multinazionali.
Tuttavia lo studio della Brown University non si ferma qui. Oltre a calcolare che almeno altri mille miliardi di dollari saranno spesi in futuro (tra le voci quelle in pensioni ai veterani di guerra) esistono dei costi socio-politici impossibili da quantificare ma indispensabili da indicare. Al primo posto c’è l’erosione netta delle libertà civili, con leggi e prassi che permettono oggi la detenzione arbitraria sulla base di profili razziali (razzisti), lo sdoganamento dell’uso della tortura, l’abbattimento del diritto alla privatezza dei dati personali.
Non meno importanti, soprattutto negli scenari di guerra, i danni ambientali. Tra i dati curiosi quanto drammatici è stato calcolato che l’esercito statunitense ha consumato nel solo anno 2008 in Iraq tanto petrolio quanto ne sarebbe stato sufficiente a far andare per un anno 1.200.000 automobili. In tutti i paesi coinvolti è aumentata la deforestazione (in Afghanistan dal 1990 ad oggi sono stati abbattuti 4 alberi su 10), la distruzione della vita animale e l’inquinamento dell’aria e delle falde acquifere, senza calcolare l’abbandono nell’ambiente di sostanze tossiche e radioattive a partire dall’uranio impoverito. Esponenziali dunque sono anche i costi in termini di salute: dall’aumento dei problemi neurologici del 250% all’incremento della mortalità infantile in alcuni casi dell’800% alla crescita di molteplici tipi di cancro.
Tra le vittime della guerra vi è sempre, ma in questo caso in maniera particolare, la verità. Dall’11 settembre in avanti nei teatri di guerra sono morti anche 168 giornalisti e 266 operatori umanitari. Ma il disastro è ben superiore e permanente di quello pur gravissimo della perdita delle vite umane. L’irregimentazione dell’informazione embedded ha raggiunto livelli mai conosciuti anche in paesi che si considerano patria della libertà di stampa come gli USA. Non è un caso che oggi che non conviene più parlare di Iraq questo paese è oggetto di appena l’1% delle news. Sarà perché i
profitti di guerra delle multinazionali e il loro potere di censura sono così grandi da essere preferibile tacerne. Appena cinque multinazionali, Lockheed Martin, Boeing, Northrop Grumman, Raytheon e General Dynamics si sono accaparrate un terzo delle spese militari dall’11 settembre in avanti e un’impresa come l’Halliburton ha visto schizzare i propri contratti col Pentagono da meno di mezzo miliardo di dollari del 2002 ai 6 miliardi del 2006.
Alla tragedia di molti e i profitti di pochi non si è accompagnato il rispetto delle promesse. La cosiddetta “esportazione della democrazia” non ha causato particolari benefici al popolo iracheno. Oggi tutto o quasi è stato privatizzato e il neoliberismo è il vero Corano di un paese ufficialmente considerato sicuro sia dal punto di vista militare che economico. Tuttavia, al quarto anno consecutivo di grande espansione economica, il 28% degli iracheni (fonte ONU) è strutturalmente disoccupato.