Università: in difesa dei ricercatori precari

Consiglio la lettura dell’articolo di Giulio Palermo tratto dal quotidiano Il Manifesto di ieri e postato qui da Martino Mai. Lo commento criticamente qui, in una lettera che contemporaneamente invio al quotidiano il Manifesto con preghiera di pubblicazione.

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Quella di Giulio Palermo è un’invettiva contro l’anello più debole dell’università italiana, i ricercatori precari. Come tutte le invettive colpisce nel mucchio, non spiega, è un esercizio retorico, ideologico e astratto. Nell’Università italiana, per


Palermo (che pur strutturato in un’Università di questo paese, presenta se stesso come fosse Alice nel paese delle meraviglie) non esisterebbe la precarietà ma esisterebbe un sistema di cooptazione della quale i giovani sono indistintamente complici. La cooptazione stessa sarebbe solo uno strumento delle classi dominanti alla quale i giovani si prestano docili.

Se fosse tutto così semplice basterebbe dar l’assalto al palazzo d’inverno. Ma non è come la mette Palermo. Chi scrive, e con me molti altri, ha avuto un percorso non omologabile. Laureato a Pisa, l’abbandonai immediatamente e definitivamente per un dottorato a Valencia, in Spagna. Quindi, da giovane ricercatore già formato, per oltre un lustro ho lavorato e vissuto esclusivamente del mio lavoro, da ricercatore precario (e giornalista all’estero), in una terza sede, Macerata, dove poi ho vinto un concorso. Tra le tre sedi, Pisa, Valencia, Macerata e tra i docenti con i quali ho studiato e/o collaborato, non vi è alcun legame, né ho alcun parente nel mondo universitario.

Racconto il mio caso come posso raccontare i casi di decine di ricercatori, a volte di enorme valore, spesso ultraquarantenni, che svolgono a tempo pieno ricerca scientifica, quindi fanno i ricercatori, scrivono libri, stanno in laboratorio, suppliscono alle carenze del sistema universitario e lo fanno senza certezza di futuro. Sono pertanto ricercatori e precari. Svilirne i loro percorsi umani in un "compiacenti artefici della cooptazione" è offensivo e falso. I ricercatori precari esistono, caro Palermo, e spesso sono la parte migliore dell’Università.

Lo stesso demonizzare la cooptazione è fuorviante. La cooptazione può essere fatta per sistemi amicali o familistici vicini alla corruzione oppure per meriti. Laddove è fatta per meriti è spesso migliore del sistema concorsuale che ha dato sempre pessime prove di sé. Se poi diventa, come in Italia, cooptazione attraverso concorsi truccati, allora siamo alla farsa. Oltretutto, senza cooptazione né concorsi come se ne esce? Temo che dietro l’invettiva di Palermo ci sia la gran voglia di una parte della sinistra di fare con l’Università quello che Fioroni ha fatto con la scuola: mettere tutti dentro senza alcuna valutazione di merito.

In questo contesto Palermo ha ragione su una cosa. Una parte dei giovani ricercatori è interna al peggio del mondo universitario. Ha respirato quel mondo fin da bambino (sono i famosi "figli di due ordinari", ma anche questa mia è una semplificazione) e aspetta semplicemente il proprio turno, senza alcuna capacità e volontà di conflittualità e anzi ostacolando le lotte dei precari che non provengono dalle classi egemoni. Sono quelli meno preoccupati dalla precarietà (papà e mamma sostengono e consigliano su come stare al mondo) e attendono tranquillamente il loro turno. Al contrario, chi non è "figlio di buona famiglia", può essere servile quanto vuole Palermo nei confronti dei "baroni" ma è indotto dalla lunghezza del percorso precario a rinunciare. E’ questa la linea del fronte, non quella tra giovani cooptandi e movimento studentesco. La linea del fronte è tra chi si può permettere la precarietà e viene favorito da questa per far fuori competitori e chi dalla precarietà viene stritolato.

Denunciando solo la cooptazione e disconoscendo la centralità nell’organizzazione del lavoro anche universitario della precarietà, l’articolo di Palermo è infatti doppiamente fuorviante. Nel sistema classista che governa l’Università non è la cooptazione a selezionare, ma è la precarietà.

I lunghi anni da precario infatti servono per scremare per classe e non per merito. Chi arriva a strutturarsi (in gergo, vincere il concorso) molto tardi o è figlio di una famiglia culturalmente ed economicamente decisa ad accompagnare il figlio in questo cammino fino a tarda età, oppure è molto motivato e spesso molto bravo. In questi tempi di penuria di risorse (che è il problema chiave), sempre meno è il barone a chiamare il suo simile per censo, altrimenti non attenderebbe i 35 o i 40 anni per farlo.

E’ il tempo, è la tortura cinese della precarietà a fare la selezione, nell’Università italiana. Una selezione classista e sessista. Per esempio sono contratti come l’assegno di ricerca, che non contemplano la maternità, a sbatter fuori le donne. Quindi chi non appartiene già al mondo dell’Università, tende a rinunciare. Del resto, se dalla laurea all’ingresso in ruolo passano anche 15 anni, ha tutto il tempo per ripensarci e di cercare un’altra maniera di pagare le bollette e l’affitto. Dunque la realtà è che dovendo aspettare fino a 40 anni il precario che non proviene dalle classi egemoni tenderebbe a rinunciare anche se la cooptazione e i concorsi fossero del tutto trasparenti. Si costruisca un percorso che anticipi l’inquadramento in ruoli a tempo indeterminato intorno ai 30-32 anni: sarebbe una prima vera ventata di democrazia nell’accesso ai ruoli universitari.