Dal 12 dicembre 2010, ben 40 giorni fa, campeggia nella prima pagina internazionale di El País un articolo di Moisés Naím intitolato raffinatamente “Cinque cadaveri politici per il 2011”. Quaranta giorni sono un tempo infinito anche per il più piccolo dei blog ma, evidentemente, uno dei 3-4 più importanti quotidiani di centro-sinistra d’Europa considera così intoccabile il pezzo di Naím da non aver paura della puzza di muffa tanto da aver interesse a lasciarlo in bella mostra per un tempo così insolitamente lungo.
L’articolo dell’autonominato “osservatore globale” in buona sostanza si augura la morte del presidente egiziano Moubarak, dei Re di Arabia Saudita e Thailandia (e perché non di Elisabetta II?), del dittatore nordcoreano Kim Jong-il e, è il vero motivo dell’articolo come sempre fintamente bipartisan (tre morituri su cinque sono amici dei datori di lavoro di Naím), di Fidel Castro. A quaranta giorni dall’articolo di Naím è curioso poter tentare un primo bilancio. Dei cinque morituri (scelti perché con l’eccezione del settantenne coreano sono tutti ultraottantenni) il solo Moubarak ha avuto qualche grattacapo con la nipotina Ruby, protagonista del jet-set italiano. Gli altri quattro continuano nelle loro diverse occupazioni o nel probabilmente operoso pensionamento come è nel caso di Fidel Castro.
Lo scritto di Naím è prescindibile, tenuto insieme dalla sola aspettativa della morte di uomini molto anziani e la scelta è evidentemente arbitraria. Per esempio l’osservatorio globale di Naím dimentica il presidente dello Zimbabwe Robert Mugabe. Il fatto curioso è allora che a 40 giorni dalla pubblicazione del pezzo altri veri o presunti satrapi siano passati a miglior vita senza scaldare il cuore liberal-democratico di Naím. Il caso sotto gli occhi di tutti è quello della morte politica del dittatore tunisino Ben Alì (nell’immagine di pochi mesi fa con Silvio Berlusconi) considerato da sempre da tutti i governi del G8 come un dittatore amico. Per giorni i media e le cancellerie occidentali (con la parziale eccezione di Barack Obama) non si sono troppo preoccupate né di protestare né di contare i morti delle proteste in Tunisia e hanno continuato a guardar benevolmente all’amico cartaginese temendo il salto nel buio.
Va da sé che ben altra attenzione avrebbero ricevuto quei morti se fossero caduti nell’Iran di Ahmedinejad o in un altra dittatura presunta antioccidentale come la Birmania o in qualche democrazia critica del modello economico vigente come il Venezuela. Proprio dal Venezuela (via Miami) è venuto il secondo cadavere eccellente. A Natale è morto infatti Carlos Andrés Pérez (al link ne ricordiamo la figura). L’ex-presidente socialdemocratico fu, caso più unico che raro, destituito per corruzione ma non fu mai processato per aver assassinato migliaia di persone in un governo del quale a Moisés Naím (che ha definito Pérez, sic, “un gigante morale”) non piace ricordare di essere stato ministro.
Sicuramente i sottoproletari venezuelani ammazzati da Pérez per conto dell’FMI o i ragazzi tunisini, che si danno fuoco perché il modello economico che Ben Alì rappresentava non offre loro altra opportunità che l’emigrazione, fanno meno pena e bucano meno lo schermo di Neda assassinata dai basiji di Ahmedinejad. Ma all’occhio esperto non dovrebbe sfuggire la manipolazione del pesare piuttosto che contare i morti operato da sempre dai grandi media mainstrem. La “rivoluzione” tunisina non era colorata, ovvero non era preparata a tavolino dal NED o da USAID, e il dittatore buono che incarcerava i blogger non era se non strumentalmente nella lista nera di Reporter senza Frontiere, della CNN, di El País. Vogliono decidere cosa dobbiamo sapere e perfino chi deve morire. Ma la realtà si incarica sempre di smentirli.