E se fossimo alla fine dell’era del dollaro? E se fosse necessaria una nuova Bretton Woods per un’uscita non traumatica dal predominio del dollaro?
I paesi petroliferi amici degli Stati Uniti, a cominciare dai sauditi, hanno gradito ben poco, anzi per niente, la decisione della FED sul taglio dei tassi che ha fatto svalutare pesantemente il dollaro. La banca centrale saudita se n’è apertamente svincolata rifiutando di tagliare i propri tassi. Perché dovremmo farci pagare in una moneta sempre più deprezzata, è la domanda alla quale sempre più economisti rispondono: nessuna. Se la FED continua a far andare il dollaro in caduta libera, c’è un limite al farci pagare con carta straccia. Ci vogliono un dollaro e 41 centesimi per comprare un Euro. Appena nel febbraio di 5 anni fa bastavano 87 centesimi. Il dollaro brucia, ed è una notizia molto preoccupante. Molto preoccupante per più motivi.
Innanzitutto per l’Unione Europea. Questa si è costruita un mercato interno da 350 milioni di persone, per poi puntare tutto (per una scellerata scelta ideologica neoliberale) sulla relazione con Cina e Stati Uniti, svilendo molti dei vantaggi che da quel mercato interno potevano derivare. Commerciare con i nostri partner storici, la Germania innanzitutto, con il dollaro più o meno debole è indifferente, ma competere (forse bisognerebbe ridefinire questa sinonimia esasperata tra commerciare e competere) con Cina e Stati Uniti significa legarsi a doppio filo al destino del dollaro e obbligarsi a sostenerlo continuamente.
Come si può competere (noi italiani ci abbiamo costruito il nostro miracolo quasi mezzo secolo fa) con un dollaro che vale pochissimo e con la macchina produttiva statunitense (intatta ed enorme, ovviamente) che funziona a tutto vapore e oliata dal favore di una moneta debole? Allo stato attuale la BCE e la FED giocano una commedia nella quale la FED scappa al ribasso, si fa quasi raggiungere (a costi enormi per la BCE), poi riscappa.
Ovviamente in molti tentano di correre ai ripari. Proprio ieri a Manaus in Amazzona, Lula da Silva e Hugo Chávez (con il contemporaneo assenso di Nestor Kirchner e Rafael Correa da Buenos Aires) hanno confermato che il Banco del Sud vedrà la luce.
Ma il problema per gli Stati Uniti è enorme. Nel più catastrofico degli scenari, l’economia statunitense perderebbe 800 miliardi di dollari l’anno dalla fine del dollaro come moneta di riferimento. Nell’improbabile scenario “atomico”, la vendita cinese di una parte consistente dei 900 miliardi di dollari posseduti come riserva da quel paese, per gli SU, che sul potere del dollaro come moneta di riferimento fondano la loro capacità di vivere al di sopra delle loro possibilità e finanziare il loro enorme passivo, sarebbe la bancarotta. E’ uno scenario altamente improbabile, perché lo sviluppo cinese è legato a doppio filo alla sinergia con il dollaro. Il Banco Centrale Cinese, come del resto la BCE, prenderebbero una decisione molto grave, per le loro stesse economie innanzitutto, se decidessero di smettere di sostenere il corso del dollaro che oggi sembra interessare loro più di quanto non interessi alla stessa FED che per il caso dei mutui si è mosso sul tasso di sconto senza alcuna considerazione per le ripercussioni internazionali, come il clamoroso NO saudita dimostra.
Gli Stati Uniti dimostrano continuamente di muoversi da impero senza poterselo più permettere. Al di là di scorciatoie belliche che i fondamentalisti protestanti al potere in quel paese hanno nel loro DNA, non sarebbe necessaria una nuova Bretton Woods che ridisegni completamente i nuovi equilibri monetari mondiali, pensando ad una uscita soft e non traumatica dal predominio del dollaro sull’economia mondiale?
Al momento non è all’ordine del giorno, perché sarebbe la presa d’atto del fallimento finanziario prima ancora che etico del modello neoliberale di globalizzazione. Aspettiamoci traumi.
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