Il sogno dell’industrializzazione neoliberale si è trasformato in un incubo. Ciudad Juárez, frontiera tra il nord e il sud del mondo, la città delle “maquiladoras” e dei femminicidi è oggi la città più violenta del pianeta. Negli ultimi due anni la guerra tra narcos, nella quale è coinvolto come parte in causa l’esercito messicano, ha già causato 4.700 morti e 100.000 rifugiati.
Terza e ultima parte, la prima parte può essere letta qui, la seconda qui.
Reportage di Gennaro Carotenuto e Chiara Calzolaio da Ciudad Juárez
STATO D’ASSEDIO Da quando è stato eletto, il presidente Felipe Calderón ha dichiarato guerra al narcotraffico. La sua strategia non consiste nell’investire nella società civile e nella legalità ma nella militarizzazione del territorio attraverso il controverso esercito messicano. Questo è costruito per occuparsi dell’ordine interno e in molteplici contesti si è dimostrato essere pienamente coinvolto nel narcotraffico che dovrebbe combattere. Lo dimostra il fatto che il 16 dicembre 2009, a Cuernavaca (centinaia di km dal mare nello stato di Morelos), la DEA statunitense sia ricorsa alla Marina, nell’operazione per detenere e uccidere Arturo Beltrán Leyva, alias “il capo dei capi”. Questo, quella sera stessa, aspettava a cena il generale Leopoldo Díaz Pérez, responsabile militare dell’intera regione.
Le prime operazioni militari cominciano nel 2007 nel Michoacán, nel Guerrero e in Bassa California, quindi a Chihuahua nel 2008, per un totale di 45.000 soldati dispiegati in tutto il paese. Il punto critico di tale strategia è proprio Ciudad Juárez, la principale piazza di droga del Messico, dove si concentrano circa il 40% dei morti ammazzati dell’intera guerra, che oramai corrono verso i 20.000 senza che si riesca a cauterizzare la ferita. Anzi, la violenza non ha fatto che aumentare in proporzione alla presenza dell’esercito.
Il 31 gennaio 2010 è stato un momento topico nella storia della guerra a Juárez: quindici studenti sono stati assassinati in una festa in un quartiere popolare nel sud della città. Uno o alcuni di questi “erano coinvolti in qualcosa” ma la maggior parte erano ragazzi “normali”. L’opinione pubblica, che durante molti mesi era rimasta in silenzio, terrorizzata dall’aggravarsi quotidiano della situazione, in questa occasione ha reagito.
Dopo anni di assenza sia Calderón che il suo ministro degli Interni, Fernando Gómez-Mont, sono venuti a Juárez varie volte nel giro di un mese. Si sono scontrati con ripetute ed importanti manifestazioni di protesta nelle quali sono stati accusati di essere responsabili non solo politicamente ma anche giudiziariamente della catastrofe juarense. Il presidente ha offerto quel poco che può (o vuole): più militarizzazione della città oltre a pochi milioni di pesos da investire dopo decenni di oblio.
Troppo poco e troppo tardi hanno commentato i giornali messicani e texani di qualunque filiazione politica, filogovernativa inclusa. Al contrario la grande stampa internazionale ha evitato come sempre di calcare la mano. Preferiscono glissare sull’intera tragedia messicana, da quella economica a quella umanitaria, in quanto paese ortodossamente allineato al modello neoliberale e fedele alleato degli Stati Uniti. È il caso per esempio di El País di Madrid, che con sprezzo del ridicolo continua ad esaltare i “trionfi” (sic) di Calderón nella lotta al narcotraffico.
“Quella di Calderón è una politica di alta simulazione” è convinta al contrario Marisela Ortiz. Durante la prima visita a Juárez il presidente è stato duramente apostrofato dalla signora Luz María Dávila, madre di due degli adolescenti assassinati il 31 gennaio, un fatto simbolico che ha contribuito a denudare il re.
Obbligati per la prima volta a metterci la faccia, Calderón e Gómez-Mont hanno sostenuto in più sedi -ma in pochi hanno creduto loro- che l’esercito non è una delle cause principali della violenza. Non la pensano così la totalità degli esperti che abbiamo incontrato a Juárez: non solo l’esercito e la polizia federale giocano la loro partita nella guerra tra narcos, ma hanno importato forme di criminalità prima assenti dal contesto della città, come i sequestri di persona e la richiesta di pizzo, reati che hanno aggravato la crisi economica e contribuito alla chiusura di almeno 5.000 piccole e medie imprese in pochi mesi.
Oggi a Juárez la vita economica, sociale e politica è semplicemente impossibile. Nessuno si aspetta qualcosa dalle imminenti elezioni a governatore e a sindaco. Il PRD, il partito di centrosinistra che nel 2006 era cresciuto per la prima volta fino al 20% nel 2009 è sparito al 2%. L’UNESCO denuncia che perfino le scuole sono obbligate a pagare il pizzo perché gli studenti non siano crivellati all’uscita. Nella scuola dove lavora Marisela Ortiz un enorme manifesto invita gli studenti a non andare a casa a piedi e usare gli autobus: “non rischiare”.
Perfino l’industria più forte della città, quella funeraria, è in crisi dopo casi di minacce, attentati, sequestri e omicidi durante le stesse veglie funebri. Molti morti oramai sono seppelliti senza essere vegliati, spesso in segreto per non mettere a rischio i parenti. Conclude Elizabeth Ávalos: “sono trent’anni che i movimenti sociali denunciano che questo modello di sviluppo ci avrebbe portato alla situazione attuale. Non ci hanno mai ascoltato e quello che viviamo oggi è quanto hanno seminato”. Il fatto che il 65% dei morti sia figlio o nipote di operaie delle maquiladoras, giovani costretti a crescere con le madri impegnate da sole a sole in fabbrica per pochi pesos, senza alcuna opportunità di promozione sociale, di studio, di lavoro, conferma l’amara e lucida analisi di Elizabeth.
LA GUERRA DEL CHAPO GUZMÁN? Joaquín Guzmán Loera, 1954, soprannominato “el Chapo”, capo del Cartello di Sinaloa (stato settentrionale sulla costa pacifica), è probabilmente il più importante narcotrafficante al mondo. Secondo il periodico statunitense Forbes ha accumulato una fortuna di un miliardo di dollari ed è tra le 40 persone più influenti del pianeta.
Arrestato nel 1989 riuscì a scappare dal carcere di massima sicurezza di Puente Grande nel 2001, subito dopo che il partito di destra del PAN era arrivato al potere dopo 70 anni di regime priista. Chi avrebbe gestito la sua fuga sarebbe stato lo stesso Procuratore Generale della Repubblica all’epoca di Vicente Fox, Eduardo Medina-Mora. Oggi solo la DEA statunitense sembra essere interessata alla sua cattura, già che Calderón, un presidente che non parla mai di corruzione in uno dei paesi più corrotti del pianeta, non mostra nessuna fretta di arrestarlo.
La logica dell’uso dell’esercito e della polizia federale, “operazioni congiunte” come vengono chiamate, nel Chihuaua e negli altri stati risponde solo teoricamente alla strategia concordata in una riunione segreta con la DEA nei primissimi giorni di governo di Felipe Calderón: sterminare i cartelli minori e “controllare” i maggiori. Quello che appare sotto i nostri occhi è che il governo abbia “mal interpretato” la linea della DEA e invece di tenere sotto controllo il Cartello di Sinaloa collabori con questo nel conflitto con gli altri.
Molteplici ricerche, inchieste giornalistiche e le testimonianze raccolte a Juárez raccontano di una guerra dove il Chapo entra a Juárez solo quando può contare sull’aiuto militare. L’esercito, lo stesso partito di governo, il PAN, e la polizia federale a Juárez sarebbero, secondo le diverse interpretazioni di una stessa dinamica, alleati, subordinati o manovratori di Guzmán. Qual che sia la correlazione di potere, solo con tale aiuto Guzmán ha potuto mettere la sua “gente nuova” a controllare lo spaccio al posto delle bande annichilate dall’esercito. Quello che è sicuro è che chi ha deciso di scatenare la guerra per il controllo di Ciudad Juárez -che sia il Chapo, Calderón, l’esercito o la DEA- due anni e 4.700 morti dopo non è ancora riuscito a vincere.
Se il cartello del Chapo è considerato l’espressione imprenditoriale e professionale del narcotraffico, quello di Juárez, implicato in passato in vari femminicidi, appare come una struttura criminale tradizionale che non ha il know how per gestire quella che oramai ha sorpassato il petrolio come maggior industria del paese. È però un cartello particolarmente radicato nella società e nella classe dirigente della città. A Juárez gioca in casa e il prezzo del tradimento è la morte. Controlla ancora la polizia locale e può contare come carne da cannone su quell’infinita generazione perduta di figli e nipoti delle maquiladoras. Tra i 30-40 Euro alla settimana che pagano in fabbrica e gli almeno mille che garantiscono i cartelli per troppi giovani non c’è alternativa. Così “la Línea” (anche così si chiamano i narcos locali) è sopravvissuta nel 2008 alla valanga dell’arrivo dell’esercito e nel 2009 è riuscita a contrattaccare utilizzando perfino tattiche di guerriglia.
In questo contesto, da parte del Chapo, il senso del massacro degli studenti il 31 gennaio sarebbe stato quello di creare un evento mediatico per permettere all’ “alleato” Calderón un’ulteriore e definitiva militarizzazione della città. Con una Juárez inondata di soldati, potrebbero arrivare a 50.000 secondo alcune fonti, si riuscirebbe ad eliminare fisicamente il Cartello di Juárez a un prezzo di morti, stupri e sparizioni di persone forse senza precedenti persino nella storia violenta del paese. Ma il Cartello di Juárez non verrebbe sterminato per sconfiggere il crimine ma solo per sostituirlo con un altro cartello considerato più affidabile.
Mentre il livello di violenza continua ad alzarsi e una madre a Juárez può morire perché ha un’automobile simile a quella di un narco inseguito da sicari poco scrupolosi, uno dei nostri intervistati ci esprime un sentimento condiviso da molti: “la cosa migliore per Juárez sarebbe che vincesse il Chapo e pacificasse alla sua maniera la città”. È un’espressione di realismo forse, ma manifesta anche che la stanchezza, la paura, il male di vivere a Juárez nel 2010 rendono questa città una sorta di Saigon alla vigilia dell’entrata dei Vietcong. Prima di allora ci saranno ancora migliaia di morti e centinaia di migliaia di rifugiati in questa guerra che al complesso mediatico mondiale non interessa raccontare anche perché testimonia il percorso storico del neoliberismo: con la società civile smantellata e se tutto quello che è profitto è accettabile, la vittoria sorriderà ai “Chapo Guzmán”, il più moderno degli imprenditori neoliberali.
Fine. La prima parte può essere letta qui, la seconda qui.
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