GUATEMALA (Alta Verapaz) – “Sono stato un sottufficiale dell’esercito del Guatemala per 11 anni e ho raggiunto mete che in pochi riescono a raggiungere. Ho dovuto fare cose molto dure, ma era quello che andava fatto”. In un paese dove migliaia di bambini sono stati torturati, bruciati, assassinati, sono parole che aprono le porte sull’orrore. Le ‘Verapaces’ (Alta e Bassa) sono una regione abitata da popoli indigeni fatta di montagne, boschi, agricultura povera così lontana dalle ricche piantagioni di caffè della costa pacifica. Terrazzette di poche piante di mais si inerpicano tra paesaggi mozzafiato facendo da cerniera tra il Chiapas e il Centroamerica. Le ‘Verapaces’, con il Quiché, furono uno degli epicentri dell’etnocidio maya degli anni ’80 quando la dittatura militare usò senza limiti le strategie di guerra a bassa intensità contro una popolazione civile quasi totalmente inerme. Alla fine si contarono in 250.000 tra assassinati e desaparecidos, nella stragrande maggioranza maya. Di questi un buon quinto viveva nei due dipartimenti contigui di Alta e Bassa Verapaz. Il ricercatore, che pure ha risalito queste montagne sulle tracce dell’etnocidio, non avrebbe mai immaginato che la prima testimonianza dell’orrore non sarebbe venuta dalle vittime o da chi le vittime ha aiutato o studiato, storici, antropologi, sociologi, giuristi (l’agenda è carica di contatti) ma dalla voce tranquilla di uno che fu aguzzino e che ora, conscio di esser tra le fila dei vincitori, si racconta con l’asetticitá di chi si sa intoccabile. Con 6.400 omicidi nel 2008, frutto di fenomeni complessi e contigui quali l’infinita violenza e corruzione delle classi dirigenti, un modello economico fallito, il narco, le maras, il Guatemala non èsolo uno dei paesi piú violenti al mondo ma anche un paese nel quale l’impunità è entrata nel DNA. Il Guatemala compete per morti violente con paesi in guerra come l’Iraq o l’Afghanistan, oltre che con i confinanti Messico e Salvador, nel silenzio complice del complesso mediatico. “Forse – come ci stupisce una monaca asturiana che durante l’etnocidio ha rischiato costantemente la vita – oggi è perfino peggio che durante la guerra, quando il nemico, l’esercito, i paramilitari, erano riconoscibili. Adesso il nemico è ovunque”. Suor Juana neanche una settimana fa ha pianto la morte di un ragazzino di 18 anni, Alberto. Per mesi, visitandolo anche in carcere, l’aveva accompagnato nel tentativo di uscire dalla mara della quale era un piccolo boss. Lo hanno trovato seviziato e abbandonato in un burrone. Un numero in più senza che i suoi assassini rischino nulla. L’impunità sembra tenere tutto in questo paese, dal genocidio alla corruzione al narco alla microcriminalità delle maras che rende disponibili sicari per pochi euro. Per la storica Clara Arenas, che ci riceve ad Avancso, un glorioso quanto povero centro di ricerca multidisciplinare nella capitale, fondato con Myrna Mack, l’antropologa assassinata nel 1990 da un commando dell’esercito, questo paese non è mai uscito dalla fase che definisce “post-genocidio”. È lo studio del genocidio (e dell’impunità) quello che ci spiega il paese oggi, il corpo torturato di Alberto, l’avvocato Rosemberg che paga dei sicari per farsi ammazzare dando la colpa al presidente Colom, lo stillicidio delle quasi duecento morti di poveri autisti d’autobus giustiziati uno ad uno con un colpo alla nuca sul posto di lavoro (per esigere il pizzo o per destabilizzare il paese, poco cambia).
Francisco, l’ex militare, è il nostro chaffeur. Non arriva al metro e sessanta come la maggior parte degli abitanti del Guatemala e i suoi tratti somatici e la carnagione rivelano appena un lieve meticciato in geni pienamente figli di queste terre. È anche lui un “hombre de maiz” come quelli cantati dal Nobel guatemalteco Miguel Ángel Asturias. Prima che cominci a parlare spontaneamente gli abbiamo già incautamente dato una serie di informazioni su di noi: deve accompagnarci infatti in un centro culturale dominicano, non facilissimo da raggiungere, che ha lavorato per anni in difesa delle vittime dell’etnocidio e che conserva uno degli archivi e biblioteche più importanti sul tema, in un paese dove essere catechista cattolico era sinonimo di comunista e guerrigliero ed in centinaia di casi è costato la vita. Ci pentiamo presto di aver dato dettagli sui perché del nostro viaggio e i nostri interlocutori ci consiglieranno di cambiare modi e tempi del rientro.
“Ho servito nell’esercito del Guatemala perché ci credevo e perché era la cosa giusta da fare. Sono stato sotto le armi dall’82 al ’93, dai 18 ai 29 anni. Sono andato volontario, non come altri che sono stati costretti con la forza a combattere”. Il suo linguaggio è guerresco in tutto, durante il lungo colloquio parla continuamente della normalità dell’uccidere e dell’essere uccisi. Lo fa con modi pacifici, da tranquillo padre di famiglia e lavoratore. L’affabilità nell’usare un linguaggio violentissimo diviene surreale quando lungo la strada si ferma ai margini di una modesta casetta da dove lo salutano la moglie, nei panni tradizionali della cultura locale, e i tre bambini. Il maschietto, un paio d’anni, proseguirà il viaggio sulle nostre ginocchia.
“Saprei io come liberarci della criminalità di adesso. L’unica soluzione sarebbe fare come in tempo di guerra: ucciderli tutti. Purtroppo se il governo lo facesse arriverebbero immediatamente le Nazioni Unite e le ONG dei diritti umani a fare casino e impedirlo”. “Mano dura” è lo slogan del “Partito patriota”, la destra erede della dittatura che, in alleanza con i fondamentalisti evangelici, dovrebbe nel 2012 tornare al governo. “Mano dura”, ce lo ripetono quasi ad ogni angolo in Guatemala e rispetto al clima d’insicurezza, reale ma anche fomentato dai media, per tanti sembra essere l’unica soluzione.
Ma lei è di qua, invece è vero che i guerriglieri venivano da fuori? Da Cuba? “Questa era la propaganda, ma la verità è che era tutta gente indigena, tutta gente del posto, esattamente come noi che stavamo dall’altra parte. È per quello che quando abbiamo deciso di levare l’acqua al pesce siamo riusciti a farlo”. Svanisce in poche parole la retorica ufficiale da guerra fredda, quando nella più crudele epoca reaganiana l’Occidente chiudeva gli occhi su massacri senza limiti, bambini costretti a mangiare parti dei genitori prima di essere uccisi, feti estratti dai ventri delle madri, stupri metodici e decine di Marzabotto documentate nei quattro volumi del “Guatemala nunca mas” che è costato la vita a Monsignor Juan Gerardi.
“Non c’era altra soluzione. L’unica maniera per estirpare la guerriglia era eliminare il male alla radice. Noi avevamo ‘orecchie’ (spie) nei villaggi, e quando sapevamo che qualcuno poteva essere coinvolto nella guerriglia eliminavamo tutta la famiglia. Era l’unico modo per isolarli”. Nel solo paese di Rabinal (Baja Verapaz) sono state ammazzate cosí piú di 5.000 persone su meno di 30.000 abitanti. Tutto avveniva nel silenzio della comunità internazionale. Un silenzio così fitto che (a giorni saranno 30 anni) quando dal vicino Quiché un gruppo di indigeni diretti da Vicente Menchú, padre di Rigoberta, entrarono a Città del Guatemala nell’Ambasciata spagnola per chiedere disperatamente aiuto, l’esercito guatemalteco, ben consigliato, rassicurato e protetto da Ronald Reagan, violò l’Ambasciata di una democrazia Occidentalebombardando al fosforo e non facendo distinzioni nell’assassinare indigeni e diplomatici. Non serve interloquire su questi temi col nostro chaffeur. Inutile rammentare che la guerriglia in Guatemala non fu mai forte come la salvadoreña o la nicaraguense e che quella politica di terra bruciata serviva più che altro a fare spazio a multinazionali minerarie, del legno e dell’agroindustria, come avviene ancora oggi nella Colombia di Álvaro Uribe.
“Del resto dovevamo eseguire gli ordini. Era la guerra”. Come nell’ Argentina di Videla o come per Eric Priebke alle Ardeatine torna l’eterna foglia di fico dell’obbedienza dovuta. Ma non c’era chi si rifiutava? “A volte, ma venivano eliminati”. Qui il nostro interlocutore si lancia in una dotta disquisizione sulla differenza tra un capo militare e un leader. “Spesso gli ufficiali, quelli delle accademie militari, non sapevano essere leader, non sapevano stare alla testa della truppa e allora i leader sorgevano tra i soldati e [manco a dirlo] in questi casi gli ufficiali venivano eliminati”. Sono, come è stato studiato in molti altri casi e contesti, quelle solidarietà forgiate dalla guerra che permettono dopo la smobilitazione di ricostruirsi una vita in alcuni dei pochi settori funzionanti dell’economia: le onnipresenti polizie private, a volte il crimine organizzato, i trasporti: “il mio datore di lavoro è il mio capo di allora. Ancora adesso io ho fiducia totale in lui e lui ha fiducia totale in me. È così che dopo la guerra mi sono rifatto una vita e una famiglia. Altri sono impazziti”.
Lei ha vissuto [e commesso] cose molto dure, ma non le è mai sfiorato in mente che il prezzo pagato fu troppo alto e che forse se avesse vinto la guerriglia non sarebbe successo niente di così grave? Ci pensa a lungo e poi: “no, se avessero vinto loro in questo paese non ci sarebbe mai stata pace… sarebbe come l’Iraq. Ci sarebbe stata una guerra continua fino ad ora”. Però i suoi superiori le hanno chiesto di fare cose molto dure. “È vero, e forse adesso so che non è stato giusto che i figli pagassero le colpe dei padri”. Sono i massacri dei bambini indigeni, decine di migliaia. Bambini piccoli e scuri come il suo che gioca ignaro sulle nostre ginocchia. E forse pensa che anche su di suo figlio non vorrebbe che un giorno ricadessero le colpe del padre.