Pietro Citati, sulle pagine della Repubblica, pone un problema reale: fare l’insegnante non assicura più né status né tranquillità economica. Lo fa con bella penna e, quasi con pudore, lancia quella che ritiene una provocazione: raddoppiare gli stipendi agli insegnanti. Intanto si potrebbero valorizzare i ricercatori espulsi dalle Università.
L’idea di Citati è che mettendo in moto una competizione per appetibili cattedre retribuite 2 o 3.000 euro al mese, emergano dalle nebbie buoni insegnanti che al momento si dedicano a più lucrose carriere. Purtroppo non è così. La competizione per un posto da insegnante, a 1.200 euro nel pubblico e 6-800 euro nel privato (dove pagano con il benefit del famoso “punteggio”, per il quale molti sarebbero disposti a lavorare gratis) non è mai terminata. Il posto a scuola è sempre ambito indipendentemente dallo stipendio. Da qualcuno per vocazione, da altri per comodità. Ma soprattutto per una peculiarità del sistema scolastico italiano. Più che la bravura e la passione (che pure è presente in moltissimi), più di tutto può la pazienza. Tanto prima o poi si entra.
Da oramai un lustro chi scrive insegna didattica della storia contemporanea alla SSIS, la Scuola Superiore per l’Insegnamento Secondario, alla quale accedono i laureati che vogliono conseguire l’abilitazione all’insegnamento. Ce n’è una in ogni regione, è gestita da consorzi di università ed è un’ottima cosa. Al livello costantemente calante dei nostri laureati è offerta l’opportunità di un paio d’anni d’ulteriore preparazione. Dalle SSIS escono eccellenti e pessimi futuri insegnanti. La differenziazione tra i migliori e i peggiori è di uno o due punti nelle future graduatorie: nulla. Tutto è appiattito. Oggi in Italia ci sono facoltà umanistiche che arrivano a dare anche il 70% di 110 e lode ai loro laureati. E’ uno dei frutti dell’autonomia: dovendo soddisfare il cliente, ricompensiamo con la patente di genio –voti altissimi- l’offerta di una laurea squalificata che offre un futuro incerto e mal retribuito. Alcuni laureati continuano ad essere eccellenti, altri, anche con lode, sono meno che mediocri. Chi li screma se l’Università non lo ha fatto? Questo è il dramma.
Da decenni chi “decide” di diventare insegnante è un treno in corsa virtualmente inarrestabile. Si laureerà, affronterà sacrifici inenarrabili, sarà mal pagato, compatito o sbeffeggiato, si dividerà per anni tra tre o quattro scuole disagiate, ma non ci sarà nessuna SSIS, nessuna abilitazione, nessuna selezione, che fermerà la sua corsa verso la cattedra. Arriverà magari a cinquant’anni, ma arriverà perché dalla laurea in avanti, nessuno si permetterà di valutarlo in quanto insegnante e, se d’uopo, lo dirotterà verso un altro mestiere. Molti, diciamo almeno un quarto del corpo insegnante, farà danni a scuola per trenta o quarant’anni e taglierà le gambe a migliaia di allievi.
La SSIS è un osservatorio privilegiato perché si incarica anche di dare l’abilitazione –attraverso un percorso molto agevolato- ai precari storici. Sono quelli che vanno avanti tra una supplenza e l’altra da decenni e che non hanno mai preso l’abilitazione. Tra loro ci sono delle perle d’insegnanti, ma soprattutto ci sono persone impreparate, senza stimoli e senz’altra voglia che risolvere il loro problema occupazionale. Un giorno sono entrate in una scuola, hanno attaccato il loro cappotto alla parete e hanno cominciato ad insegnare. Nessuno ha chiesto né chiederà loro chi sono e da dove vengono, e andranno avanti così fino alla pensione. L’aneddotica sarebbe lunga e drammaticamente gustosa. Si boccia ben poco alla SSIS come in ogni ordine e grado del sistema educativo italiano. Ma, mesi fa, un cinquantenne -da vent’anni precariamente in cattedra a scuola- lo bocciai. Insegnava italiano e storia da una vita, ma non aveva la più pallida idea di cosa fosse la spedizione dei Mille. Finalmente capii come mai i nostri diplomati arrivano all’Università senza sapere chi ha vinto la seconda guerra mondiale. Il tipo protestò a lungo e sfacciatamente: la mia bocciatura gli faceva perdere tempo. La volta dopo si barcamenò un po’ meglio e passò l’esame con un voto insolitamente basso: chi ero io per fermare un laureato cinquantenne che insegnava da vent’anni?
La giusta provocazione di Citati è dunque mal indirizzata. Il solo fatto di essere stati per vent’anni precari nella scuola non rende buoni insegnanti né dà diritto a una cattedra. E’ drammatico, ma è così. Alcuni dei diplomati SSIS di maggio scorso meriterebbero una cattedra molto di più di colleghi che si barcamenano nella scuola da una vita. Sono bravi, hanno i titoli, hanno entusiasmo, ci servono. Meriterebbero anche un buon stipendio, ma prima di arrivare a quello non c’è alcun meccanismo che possa farli passare avanti ai loro colleghi scarsi. E così, pur essendo disponibili degli ottimi insegnanti gli adolescenti italiani sono obbligati ad avere insegnanti peggiori.
La priorità della scuola è dunque scovare quel quarto di insegnanti impreparati e trovare il modo di non farli più nuocere. Perché nuocciono, e molto. Piuttosto prepensioniamo i più vecchi, cambiamo di funzione quelli di mezza età, verifichiamo seriamente l’idoneità degli altri, e cacciamo gli inidonei. E’ vitale per il paese aumentare la qualità media di chi ha a che fare con i ragazzi. Non è una riforma a costo zero e aprirebbe inenarrabili contenziosi sindacali. Ma ciò basterebbe a ripristinare la dignità e lo status di chi nella scuola resta a buon diritto. E sarebbe un passo decisivo per arrestare il declino non ineluttabile della preparazione dei giovani diplomati e laureati italiani del XXI secolo.
Rinsaldare la sinergia tra scuola e università potrebbe risolvere una parte del problema. Ogni anno il sistema universitario espelle migliaia di eccellenti ricercatori intorno ai 40 anni. Sono tra i migliori laureati che il nostro sistema educativo produce, hanno dato il meglio di loro per 10-15 anni, ma per loro non c’è posto nei quadri accademici. Al contrario che nella scuola, all’Università non si entra prima o poi. A un certo punto si è fuori e basta, con la necessità di reinvertarsi una vita fuori tempo massimo. Eppure, stabilendo dei percorsi comunicanti tra ricerca e scuola, tra dottorati, post-dottorati e SSIS, potrebbero essere proprio loro, i meritevoli immeritatamente espulsi dall’Università, a ridare competitività alla nostra scuola. Già i dottorandi potrebbero dedicare un 10% del tempo allo studio della didattica della loro disciplina. Ne faranno tesoro sia come docenti universitari sia eventualmente nella scuola. Al bivio, le SSIS potrebbero offrire loro un percorso apposito all’abilitazione. Infine il loro percorso universitario dovrebbe essere valutato in maniera privegiata: spesso corrisponde a curricula di eccellenza e come tale anche la scuola dovrebbe valutarlo.
Sarebbe la maniera migliore per il sistema scolastico pubblico per valorizzare competenze altrimenti sprecate. Queste, forse frustrate dalla mancata carriera universitaria, ma sicuramente con un bagaglio di esperienze invidiabile, se potessero in maniera lineare riciclarsi nella scuola saprebbero senza dubbio avvicinare gli studenti alla passione per la ricerca, mettendo in moto un ulteriore circolo virtuoso. E in questo caso, come per decine di migliaia di insegnanti che alla scuola dedicano la vita, sì che il premio stipendiale di Citati potrebbe essere utile.
* Gennaro Carotenuto è ricercatore universitario in Storia contemporanea e da anni insegna didattica della Storia contemporanea presso la SSIS dell’Università di Macerata.