Dopo il gran tam-tam estivo il Venezuela è sparito dai giornali italiani. Eppure, nel giro di tre giorni, El País di Madrid, che da una ventina di anni sta alla versione ufficiale delle destre neoliberali sull’America latina come la Pravda stava al PCUS e all’URSS, e come tale merita di essere letto con la massima attenzione, ha pubblicato ben due articoli significativi di un cambiamento in atto. Questi infatti dimostrano grande frustrazione, e un filino di rabbia, rispetto al comportamento dell’opposizione venezuelana, appoggiata fino a ieri con trasporto nella sua lotta contro la “dittatura castrochavista” di Nicolás Maduro.
Il primo è firmato dal giornalista venezuelano Ewald Scharfenberg, di fatto corrispondente dalla capitale caraibica, il secondo è un editoriale del cattedratico argentino di stanza a Georgetown, Héctor Schamis, che da Washington è sempre stato durissimo con tutti i governi progressisti latinoamericani. Per entrambi l’opposizione sarebbe rea di non aver dato la spallata finale al regime chavista che, come ripetuto per mesi, era ormai cosa fatta.
In particolare per Schamis l’opposizione sarebbe incomprensibilmente più volte andata in soccorso del governo. Nonostante citino eventi noti, come e perché ciò sarebbe successo, i due articoli evitano di spiegarlo. Architrave della linea editoriale resta l’illegittimità del chavismo e il suo non diritto a esistere. Spiegare la dialettica della politica interna di una democrazia in crisi non è possibile perché metterebbe in discussione se stessi, millanterie e informazioni false volte a rappresentare la severa crisi venezuelana in una lotta tra bene e male con Maduro nei panni di Pol Pot e l’opposizione neoliberale formata da dame di San Vincenzo e paladini dei diritti umani.
Giustamente Schamis ricorda che per creare le condizioni per la caduta di una “dittatura” (attraverso una “rivoluzione colorata” parrebbe, ma lasciamo il beneficio del dubbio) sono necessari tre requisiti: 1) l’unità dell’opposizione; 2) le manifestazioni di piazza verso un regime odioso e repressivo (più morti ci sono meglio è); 3) la pressione internazionale. Queste tre condizioni si sarebbero date più volte in Venezuela e in particolare da aprile fino all’elezione della Costituente chavista a fine luglio quando il regime sarebbe stato al collasso. La tesi è che da allora, inopinatamente, visto che secondo la grande stampa internazionale la Costituente sarebbe stata un fallimento e i pochi votanti lo avrebbero fatto con una pistola alla tempia, l’opposizione avrebbe claudicato, tradito, trattato col mostro “castrochavista”.
A questo si aggiunga lo scemare delle proteste popolari. È il punto due di tre della teoria del “regime change”, quello che ha fatto trepidare una parte rilevante dell’opinione pubblica progressista internazionale, scioccata dalle molte morti di manifestanti, tutte addebitate al governo dai media. È un qualcosa che la linea di El País non sa ed evita di spiegare: “le strade si sono svuotate, una volta di più”, si legge e si va oltre, malcelando la delusione. Quell’opposizione democratica che aveva orgogliosamente tenuto la strada per quattro mesi, pagandone un prezzo di sangue, proprio al momento di cogliere il frutto della caduta del regime è evaporata.
Perso non ha perso la protesta di piazza, nessuno lo potrebbe dire seriamente, anche se il governo di Nicolás Maduro, proprio con la Costituente, è uscito dall’angolo e ha dimostrato di rappresentare ancora milioni e milioni di venezuelani tanto da poter sostenere – strane ste dittature – l’imminente prova delle elezioni amministrative. Neanche si può sostenere quello che la propaganda chavista meno credibile afferma, ovvero che tutti i manifestanti fossero squadracce pagate dai magnati dell’opposizione. È vero che il clima fosse fetido in quelle barricate, e che molti antichavisti genuini non ne potessero più e fossero terrorizzati, ma la fine repentina delle proteste di piazza resta la gamba non spiegata, né da chi scrive, me ne dolgo, né dagli articolisti del Grupo Prisa, a meno di non ammettere che forse questa mano l’ha vinta il governo.
Se tale spiegazione non è ammissibile per El País, il principale oggetto di critica passa a essere la decisione di partecipare alle elezioni amministrative di questo autunno di una maggioranza delle decine di partiti e partitini che compongono (o componevano) la MUD (Tavolo di Unità Democratica). È una decisione giunta in ordine sparso – e che chi scrive da settimane segnala come un punto di svolta – che qualunque osservatore oggettivo ha visto come una rilegittimazione del governo da parte dell’opposizione. I motivi per i quali, dopo il boicottaggio della Costituente, adesso buona parte dell’opposizione accetta di rimandare la soluzione della contesa ad una sfida elettorale col chavismo, sono poco comprensibili per un lettore al quale è stato descritto solo un paese al collasso, una repressione spietata da parte di un regime feroce e isolato, al quale si contrapponeva un’opposizione florida e trionfante sul punto di espugnare il palazzo di Miraflores. Qualcosa non torna.
Il principale motivo per il quale l’opposizione parteciperà alle amministrative è che nella strana “dittatura castrochavista” l’opposizione stessa amministra un gran numero di entità locali, dagli stati ai municipi, e molti amministratori pubblici non vedono alcuna ragione per lasciarne il governo al PSUV in un contesto nel quale, come avviene in qualunque democrazia, a livello locale ideologie e conflitti sfumano. Scharfenberg identifica quelli che, partecipando alle elezioni, riconoscono la legittimità politica di chi le organizza, cioè il governo, come “pragmatici” rispetto ai duri e puri che definisce “etici”. Da Washington Schamis ci va giù più duro: quelli che partecipano alle elezioni sono “collaborazionisti” tout-court e solo i radicali meritano ancora l’appellativo di “democratici”. Questi includono l’estrema destra parafascista e razzista, l’esistenza della quale a Schamis non interessa ricordare, a partire da María Corina Machado, che restano sull’Aventino del monte Avila. Se mezza opposizione è collaborazionista il dato politico per Schamis è che “la MUD è finita” e la “fine della dittatura, è passata dal non essere mai stata così vicina, a non essere mai stata così lontana”. A chi scrive sembra una drammatizzazione esagerata, quasi un momento di sconforto da parte del partito neoliberale che ha sperato nel rovesciamento definitivo dell’esperienza chavista. Il chavismo ha forse vinto una battaglia, ma è lungi dall’aver vinto la guerra, a meno di non occuparsi solo di semantica: se hai mille volte scritto “dittatura” ed è più evidente che mai che proprio l’opposizione presunta democratica, tornando al voto dimostra che una dittatura il Venezuela non sia, lo sconforto è dovuto alla figuraccia che il cattedratico di Georgetown sta facendo.
Insomma, delle tre gambe necessarie alla rivoluzione colorata sognata a Madrid e a Georgetown, l’unica a ballare ancora, almeno per ora, è il fronte internazionale. Istituzioni internazionali controllate da sempre (l’OEA) e nuovamente (il Mercosur) dai neoliberali, hanno messo alla porta il Venezuela. Sinceri democratici come il presidente di fatto brasiliano Michel Temer o l’ex-messicano Vicente Fox (che dalla televisione colombiana Caracol ha direttamente minacciato di morte Nicolás Maduro) tuonano quotidianamente contro Caracas. Altri, tra i quali Felipe González, invocano apertamente il golpe militare. Parole severe le hanno dette anche dirigenti politici più credibili come il neo-inquilino dell’Eliseo Emmanuel Macron o l’italiano Paolo Gentiloni. Alla chiamata alle armi rispondono sempre sull’attenti i grandi gruppi mediatici, dal grupo Prisa (El País) a Clarín, da Mercurio a O Globo; quelli quando si tratta di dittature (il più delle volte da appoggiare) non mancano mai. Soprattutto Donald Trump (subito semi-smentito dai suoi) ha minacciato un intervento militare diretto, con i marines pronti a sbarcare al porto de La Guaira, nonostante gli USA, che pure ne hanno fatte di cotte e di crude, mai abbiano avuto l’ardire di mettere gli stivali sul terreno in Sudamerica. Maduro ha subito mandato dei fiori: puro ossigeno per il chavismo e il latinoamericanismo.
Purtroppo per El País, anche sul fronte internazionale ci sono pecore nere che fiancheggiano la “dittatura castrochavista”. No, non solo il solito Evo Morales, l’indio così matto da pensare che a questo mondo siamo tutti uguali o il premio Nobel delle cause perse (i diritti umani), Adolfo Pérez Esquivel che stranamente non sta con l’opposizione venezuelana che di diritti umani si riempie la bocca. Con i chavisti, a settembre 2017, stanno la stragrande maggioranza dei sindacati del Continente: ritengono che in Venezuela vi sia un conflitto soprattutto di classe, argomento totalmente espunto dalle analisi mainstream. Quando uno dei 16 gruppi di lavoro del CLACSO (la principale istituzione latinoamericana per le scienze sociali) ha prodotto un documento contro il governo venezuelano, gli altri quindici gruppi, dei quali fanno parte valentissimi accademici, hanno risposto che no, potevano condividere alcune o parecchie critiche, ma non erano interessati a sottoscriverlo. L’America latina è un posto così fuori giri rispetto all’Europa che da Emir Sader a Boaventura de Sousa, da Ignacio Ramonet ad Atilio Borón, i principali intellettuali della regione, o amici storici della stessa, continuano a sostenere Maduro, al quale magari non lesinano critiche, ma ricordando che il ritorno al neoliberismo promesso dalle destre (e mantenuto dal Brasile all’Argentina) è il contrario esatto della democrazia.
E Francisco? Nessuno ha ben capito da che parte sta il papa gesuita e peronista, ma non certo da quello del “regime change”. Perfino l’Europa claudica tra “dittatura” e “democrazia”. Senza considerare Podemos in Spagna, è apertamente filo-Maduro Jean-Luc Mélenchon, che mesi fa sfiorò il ballottaggio in Francia, e l’appena più prudente Jeremy Corbyn, seduto al centro tra la minoranza di destra blairiana del Labour e la sua maggioranza pro-chavista. Deve suonare paradossale a chi legge “La Repubblica”, ma l’Europa nei mesi scorsi ha sfiorato un’alleanza castrochavista che andava da Downing Street all’Eliseo!
Chiudendo sui nostri articolisti, gli strali, da mesi per la verità, sono ancor più per José Luís Rodríguez Zapatero, l’ex-inquilino della Moncloa, che è la figura più visibile dei facilitatori del dialogo tra le parti. Lavorare per il dialogo (con il demonio) lo fa definire addirittura uomo di Maduro dall’arrabbiatissimo Schamis. Invece Scharfenberg ci traccia, facendo bene il suo mestiere, le reti e le complesse trattative intrattenute da Zapatero con l’opposizione, tra chi ci parla (e quindi parla col governo), e chi non ne vuol sapere: Borges sì, Capriles no, Leopoldo sì, Machado no e via seguendo. Crollano i manicheismi insomma e no, il Venezuela non è il paradiso descritto anche in Italia da certa propaganda ultrachavista, ma le cose sono tanto più complicate di come la mettono i suoi esagitati detrattori.